In ricordo di G.

sedia giuseppe

Chi ha frequentato la biblioteca negli ultimi anni, ha conosciuto G. Aspettava tutte le mattine, spesso seduto sul gradino di fronte all’entrata, che la biblioteca aprisse; poi entrava, col tempo sempre più zoppicante, con un sacchetto di plastica in mano con dentro poche cose sul fondo. La sua figura altissima e magrissima attraversava i corridoi fino al distributore del caffè, e lì restava tutto il giorno. I primi anni leggeva il giornale, seduto sulla panca di legno; poi le panche furono tolte, e il giornale lo leggeva in piedi. Poi smise di leggere, la barba diventava più lunga, i vestiti più larghi, stava in piedi appoggiato al muro. Negli ultimi tempi non riusciva più a stare in piedi, le scarpe rotte, una piccola coperta trascinata ovunque; arrivava e si sedeva per terra.

Mettemmo lì una sedia, per lui. Si sedeva comodo, le lunghe gambe accavallate, e se ne stava lì calmo, a volte confabulando silenzioso con chissà quale suo demone. Qualcuno gli offriva un caffè o gli prendeva una merendina. Qualcuno, quando lui si allontanava, toglieva la sedia in nome del decoro. Qualcun altro la rimetteva. Qualcuno chiamava la guardia giurata. Qualcuno si indignava per l’assenza dei servizi sociali (che invece c’erano: con discrezione, senza clamore, pur nella sua condizione, G. non è mai stato abbandonato). Qualcuno protestava con i bibliotecari e la direzione. G. restava lì, persona dolce, tenace e mite fino a quando una qualche sua ferita chiedeva di essere difesa, e allora è capitato che allungasse qualcosa che somigliava a un pugno verso chi lo infastidiva, ma forse è successo soltanto una volta.

Con la sua silenziosa, tenace presenza quotidiana, G. ci ha costretto a lungo a interrogarci su cosa volevamo che fosse la nostra biblioteca. Un luogo aperto a tutti, sì: è così bello dirlo, rivendicarlo con  l’orgoglio del bibliotecario militante. Ma quanto è complessa, quanto è difficile davvero questa semplice affermazione, un luogo aperto a tutti, l’abbiamo scoperto quando il dubbio che potesse essere aperto anche a G., e ai tanti come lui, ci sfiorava. Quando cercavamo le ragioni biblioteconomiche per cui G. potesse restare o essere allontanato, e la biblioteconomia che per molti è una scienza esatta non ci diceva niente.

E alla fine G. è rimasto, semplicemente perché fuori era freddo. È rimasto perché  voleva restare.  No, non era degrado. Abbiamo per quanto è stato possibile lasciato che la biblioteca avesse, fra i suoi significati, anche quello di uno spazio caldo e sicuro per tutti, anche per lui. E alla fine ho il dubbio che tutto quell’interrogarci su cosa volevamo che fosse la nostra biblioteca non potesse trovare risposte, se non interrogandoci anche su di noi: su che cosa ci rende tutti così precari, su quanto esili siano le nostre certezze se basta un senzatetto a turbarci.

G. se ne è andato qualche giorno fa. Vorrei salutarlo con gratitudine per tutte le domande che la sua silenziosa presenza ci ha posto, per averci obbligato a cercare delle risposte.

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