Spalancare le porte. E poi?

Riprendo l’argomento di un altro mio post, anche sollecitata dalla lettura di questo intervento di Denise Picci. Mi interessa in particolare una questione che pone Denise:

Quando seguendo l’idea che le biblioteche devono rispecchiare la nostra società (davvero? abbiamo aspirazioni e modelli così bassi?) abbiamo aperto le porte a tutti (sacrosanto, sia chiaro) e abbiamo lasciato tutti lì, in biblioteca a fare non si sa bene cosa, riproponendo esattamente quello che succede fuori: aree di emarginazione, insofferenze, non risposte ai bisogni.

Mi sento chiamata in causa perché scrissi altrove, e non esito a dirlo ogni volta che posso, proprio questo:

una biblioteca che voglia dirsi veramente pubblica, una biblioteca pubblica che funziona, anzi addirittura la biblioteca pubblica ideale, è quella che riesce a contenere al suo interno la società che sta fuori dalle sue pareti. Tutta la società, tutte le persone. Gli accademici, i bambini, gli studenti, le casalinghe, i professionisti, le commesse e le funzionarie,  gli intellettuali, le maestre, i poveri, i solitari, i tristi e i felici. Tutti.

Non si tratta naturalmente di riproporre (o aspirare a) un modello sociale della nostra biblioteca identico a quello esterno, quanto di rispondere al principio fondante dell’esistenza delle biblioteche pubbliche, quello di offrire servizi per tutti senza distinzione.

Questo principio, così banale se vogliamo (quale bibliotecario pubblico non lo affermerebbe, in teoria?) è stato ed è spesso nella pratica disatteso dagli stessi bibliotecari, che hanno cominciato a distinguere fra utenza propria e impropria, e a chiedersi se servizi che sono stati progettati e per un certo periodo ritenuti assolutamente propri per la biblioteca (per esempio, la connessione wi-fi), non fossero improvvisamente diventati impropri sulla base di chi li utilizza. Quello che poi è successo, sta succedendo, è che le biblioteche hanno cominciato a considerare questo fenomeno un problema, e non un’opportunità (ma anche, scusate, un dovere per chi, pagato con denaro pubblico, ha scelto di lavorare per rispondere ai bisogni di informazione e conoscenza delle persone).

Non solo un problema dunque, ma un problema che riguarda categorie di persone: semplificazione, questa, che inficia qualunque ipotesi costruttiva; raramente scomposto e analizzato negli elementi che ne costituiscono la complessità. Tutti quelli che vanno sotto il nome di utenti impropri, sono davvero una categoria? Il senzatetto, l’immigrato, il disoccupato, il rifugiato, se per la biblioteca rappresentano un unico “problema”, chiedono davvero una risposta univoca?  L’approccio finora è stato questo: la ricerca di una, e una sola soluzione (impossibile) a un problema che non ci si è preoccupati di definire nelle sue articolazioni. Inevitabilmente, dunque, la risposta è di massa: si invocano i servizi sociali, è un problema del sindaco, mettiamo i tornelli: in sostanza, viene dichiarata l’estraneità dei bibliotecari alla questione.

Dunque, da chi è composto questo grande magma di utenti impropri? Non serve commissionare chissà che ricerca: basta alzarsi, fare il giro del bancone (poi un giorno dirò della necessità di bruciare i banconi delle biblioteche, ma questo è un altro discorso) ed andare a parlare con queste persone: sono lì tutti i giorni, le vediamo da mesi, non si sono mai rivolte a noi per chiedere informazioni o servizi, forse non sappiamo neanche come si chiamano e li indichiamo fra noi con il nome del loro apparire (quello col berretto, quello piccolo, il pakistano ecc.). Magari con il sorriso con cui Denise ha salutato la signora straniera, dire: “Buongiorno, sono il bibliotecario, mi chiamo Giuseppe, vedo che viene tutti i giorni, ma non ci conosciamo. Posso farle qualche domanda? lei può farne a me, se vuole”. Chiedere a ciascuno di loro perché viene in biblioteca, cosa cerca, cosa trova e cosa non trova, cosa vorrebbe, cosa possiamo fare per essere anche il suo bibliotecario e come può essere, la nostra, anche la sua biblioteca.

Si possono scoprire cose sorprendenti, per esempio una disponibilità al dialogo quasi sempre cordiale e aperta; per esempio che si aspettano dalla biblioteca esattamente quello che offre, per esempio che non sapevano che la biblioteca potesse rispondere a un loro bisogno. Si può scoprire che il ragazzo nero che da settimane se ne sta muto seduto nello stesso posto e ci pare finga di sfogliare qualche libro solo per giustificare la sua presenza in biblioteca, proviene dal Mali, dove, ci ha raccontato, nei pochi anni in cui si va a scuola si studia il francese e il mondo occidentale su libri di testo francesi, dove non si trovano – o a lui non è mai capitato di trovare – libri che parlano degli animali che popolano la sua terra, e allora per questo gli piace venire in biblioteca, perché trova libri con le foto del suo paese.

Può capitare che dopo un minimo di dialogo, un rifugiato (un clandestino?) si senta finalmente in confidenza per chiedere se, già che ci siamo, possiamo dare un’occhiata ai compiti del corso di lingua italiana, che ha appena fatto.

Può capitare di vedere reazioni di grande entusiasmo quando, a chi dichiara di essere lì perché non ha niente da fare e traffica con il suo tablet tutti i giorni perché c’è il wi-fi gratis, si propone di dare un’occhiata alle proposte della biblioteca digitale o di ascoltarsi un audiolibro.

Questo non è banale: una sorpresa interessante potrebbe essere che molti non chiedono (non hanno bisogno di) cose molto diverse di una riproposizione aggiornata di quello che la biblioteca ha sempre offerto (che magari risponde anche ad esigenze di utenti “tradizionali”).  E può anche capitare che sì, ci siano persone che hanno più bisogno dei servizi sociali che della biblioteca, ma che un bisogno non esclude l’altro.

Questa non è una soluzione, ma il primo passo da fare. Entrare in relazione con le persone che frequentano la biblioteca. Riconoscerle nella loro unicità per dare “cittadinanza bibliotecaria” ai loro bisogni.

Attenzione, non sto parlando (non in questo momento, almeno) della bellezza di aprirsi al mondo e del piacere di conoscere le persone e di sentirsi bibliotecari aperti e accoglienti. Perché la relazione fine a se stessa, pur bella e importante, non serve a molto se il nostro scopo è far crescere e cambiare i servizi della biblioteca partendo dai bisogni di chi li usa.

Perché poi, in back office, bisogna studiare, elaborare dati e informazioni che abbiamo raccolto, per capire prima di tutto quanto i servizi della biblioteca rispondano alle loro esigenze ed aspettative. Chiedersi fino a che punto coinvolgere queste persone direttamente nella progettazione di nuovi spazi e servizi. Trovare modi per mescolare gli utenti in base alle risposte che la biblioteca può dare ai loro bisogni e non in base alla loro nazionalità o provenienza sociale. Considerare la collaborazione e il coinvolgimento di altri servizi pubblici, sia per dirottare all’interlocutore giusto quelle richieste per le quali non siamo competenti, sia per avere, noi bibliotecari, alcuni strumenti utili di analisi, o di semplice conoscenza dei fenomeni che affrontiamo ogni giorno.

Dovremmo volere fortemente che la nostra biblioteca sia frequentata dalla società che sta fuori, con tutti i problemi e le complessità che questo comporta. Dovremmo volerlo perché questa riproduzione, in piccolo, del modello sociale esterno ci permette di incidere davvero, di potere realmente lavorare per il cambiamento.

Quello che, del modello sociale esterno, non possiamo permetterci di riprodurre dentro le biblioteche sono le soluzioni di massa, le semplificazioni di problemi sociali complessi, la radicalizzazione di opinioni sempre meno supportate dalla conoscenza reale dei fatti e dei fenomeni. E in questo il ruolo dei bibliotecari non è semplicemente spalancare le porte della biblioteca (anche se neanche questo pare scontato), ma lavorare attivamente, ascoltando, analizzando, proponendo, coinvolgendo, mettendosi direttamente in gioco (e in discussione) tutti i giorni.

 

 

 

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