La funzione decorativa della lettura

Ho cominciato a lavorare come bibliotecaria vent’anni fa.
Era giusto il mese di aprile, e dal primo giorno fui assegnata a due specifiche mansioni: la sezione ragazzi al mattino (come era naturale, essendo io una donna, e quindi portatrice di innata vocazione per i bambini; i bibliotecari maschi e il direttore erano al piano di sotto ad occuparsi di faccende più virili, il pubblico adulto e l’acquisto di libri); il pomeriggio mi spostavo in un punto di prestito di una frazione vicina: una stanza quadrata al piano terra, sotto la scuola elementare, con otto scaffali e quattro tavoli.
In quella biblioteca, aperta dalle 14.00 alle 18.00 tutti i pomeriggi, venivano 15 utenti a giorni alterni, tutti insieme, e ci restavano per quindici minuti: i bambini della scuola elementare durante la ricreazione. Per il resto del tempo l’unica frequentatrice della biblioteca era l’anziana bidella della scuola, una donna grigia i cui occhi spenti assumevano tristemente vita solo nei momenti in cui piangeva, perché, mi spiegava, “aveva la depressione”, e non c’era niente da fare.

Devo dire che, oltre alla ricchezza di quel contatto umano, e nonostante il contesto in cui ero arrivata, ho imparato molto in quei primi due anni: al mattino lavoravo con una bibliotecaria straordinaria, che ha saputo trasformare la sua condizione di bibliotecaria dei bambini “in quanto donna” in un’altissima competenza, di cui ora possono beneficiare bambini, insegnanti, genitori e bibliotecari che hanno la fortuna di frequentare i suoi corsi; il pomeriggio fantasticavo, in quella biblioteca piccola e inadeguata, pensando per differenza a cosa avrei fatto se avessi potuto: e pensavo in grande, come i bambini che da grandi vogliono fare il supereroe. Io non ponevo limiti all’immaginazione bibliotecaria mentre scalpitavo per diventare grande in fretta e togliermi di dosso la condizione di giovane e inesperta.

Qualche anno dopo lavoravo in una nuova biblioteca, e lì ho potuto sperimentare quell’autonomia che andavo cercando. Era la fine degli anni ’90, primi 2000, e biblioteche come Salaborsa a Bologna, San Giovanni a Pesaro, San Giorgio a Pistoia, rappresentavano l’innovazione in Italia, il modello cui molti bibliotecari pubblici si ispiravano, che aveva dato slancio ed entusiasmo e molto da lavorare, in termini di creatività e sperimentazione, ai bibliotecari che andavano a visitarle e tornavano un po’ felici (di vedere cosa si può fare) e un po’ frustrati, perché, soprattutto per le bellissime architetture, erano modelli ancora lontani dalla realtà della maggior parte delle biblioteche in cui si lavorava. Entrare in biblioteca doveva essere un’esperienza bella per l’utente, piacevole, facile. L’utente doveva essere talmente soddisfatto degli spazi, dei servizi, dei libri, da volerci tornare.

Poi, non si sa bene come, “Leggere è bello” divenne l’imperativo di quegli anni, e abbiamo fatto sforzi in ogni direzione per dimostrarlo. La creazione di occasioni sociali come le maratone di lettura, per esempio, le campagne nazionali per il piacere di leggere, poi i gruppi di lettura per socializzare e condividere la gioia che la lettura doveva dare. E poi le “biblioteche fuori di sé”: portavamo i libri dal barbiere, in piscina e in salumeria, perché i libri dovevano essere dappertutto, perché nessuno poteva sfuggire al piacere della lettura e il nostro compito era quello di creare occasioni di incontro con i libri.
Eravamo bibliotecari militanti, e avevamo una visione ingenua e grandiosa del nostro lavoro.

Nel frattempo venivano istituiti per legge gli Uffici Relazioni con il Pubblico, e non solo non ci stupivamo che le amministrazioni non chiedessero a noi di lavorare con l’informazione e i cittadini, ma probabilmente, se ce lo avessero chiesto, ci saremmo offesi di vedere contaminata la nostra quotidiana celebrazione del libro con servizi che non avevano a che fare con la lettura.
Non ci siamo accorti così di lavorare giorno per giorno per una nicchia di utenti, e per un’esigenza che sempre di più nel corso degli anni si sarebbe rivelata un lusso, e non una necessità per il pubblico.

Quale è stato il momento in cui abbiamo deciso che dovevamo lavorare per disseminare il piacere della lettura, invece che per fornire, o quantomeno facilitare l’accesso alla conoscenza per i cittadini? Quando abbiamo stabilito che bastava che a una persona fossero spalancate le porte del piacere per la lettura, per farne un cittadino consapevole, informato, socialmente e culturalmente emancipato? Come abbiamo potuto pensare che bastasse leggere, per essere una persona migliore e che il nostro compito fosse creare una società di “persone migliori”?
Eppure è andata così, abbiamo investito in risorse, professionalità, documenti, per promuovere il piacere della lettura e lavoriamo, oggi, con la minima percentuale di utenti che ama leggere, che sono gli stessi di allora forse, e i pochi bambini che, cresciuti, hanno mantenuto questa abitudine.

La conseguenza più grave di tutto questo è, secondo me, nella visione che noi stessi abbiamo contribuito a creare sia nei cittadini non lettori, che negli amministratori. Cioè che le biblioteche sono affare per chi legge, escludendo di conseguenza chi non ha voglia, tempo, passione per la lettura, e quelli che, pur avendoli, preferiscono comprare libri e non frequentare comunque la biblioteca.

In tempi di tagli di risorse, dunque, succede che non appare strano e anzi, viene considerato un atto di amministrazione coraggiosa e innovativa, inaugurare biblioteche nuove, composte da libri donati da cittadini ed editori (basta che siano libri, e vanno bene) e gestite da volontari: il piacere della lettura non richiede infatti particolari professionalità, anzi forse si diffonde più facilmente grazie all’entusiasmo e alla gratuità con cui si spendono i volontari (lo dico senza alcuna ironia).
Così come viene salutato come atto di attenzione alle esigenze di servizi bibliotecari  disseminare il territorio di Little Free Libraries, come servizio sostitutivo.
Così come vengono considerate campagne di sostegno alle biblioteche quelle che invitano a “donare un libro alla biblioteca”: li regalano i cittadini, basta che siano libri, non serve destinare risorse pubbliche per questo scopo.

La scorsa estate passeggiavo su un affollato Lungotevere con un’amica, di sera. Era pieno di vita, di giovani, di profumi di cibo buono, di bancarelle e bellissimi locali per aperitivi o cenette. In quasi tutti questi locali all’aperto era presente uno scaffale di libri: intorno ai divanetti, sulle pareti laterali, in grandi cestoni. Naturalmente nessuno leggeva, e ci mancherebbe, con tutta quella bellezza e quella vita intorno.
E allora ho pensato che quella funzione decorativa dei libri, forse un po’ l’abbiamo alimentata anche noi bibliotecari degli anni duemila, spendendo troppe energie e risorse in servizi in qualche modo decorativi e trascurando invece una funzione di cui c’è sempre un più disperato bisogno: fornire risorse informative di qualità, lavorare per rimuovere ogni ostacolo fra i cittadini e le informazioni, mettere a disposizione strumenti di interpretazione della contemporaneità, per combattere la semplificazione e l’appiattimento di fronte alla complessità delle dinamiche sociali in cui viviamo.

Tutto questo oggi è considerato in termini di sfida e innovazione, ma era questa ed è sempre stata questa la missione delle biblioteche pubbliche. Solo che a un certo punto ci siamo ubriacati di piacere per la lettura e ce ne siamo dimenticati.