La biblioteca durante il periodo delle festività di fine d’anno è strana: la quotidianità sembra momentaneamente sospesa. I pochi frequentatori entrano giusto il tempo per prendere cinque, sei film o un paio di libri, salutano e vanno. Poche persone chiacchierano lungo i corridoi; anche i bibliotecari sono pochi, giusto per coprire i turni di servizio al pubblico; nessun viavai di carrelli carichi di libri negli ascensori. Gli espositori con le novità sono semivuoti: molti libri li hanno portati via e non c’è stato il tempo di rimpiazzarli. Gli studenti semplicemente non ci sono, le sale di studio restano vuote. Non è difficile far rispettare il silenzio nelle sale. Anzi, è quasi surreale la quiete che pervade ogni ambiente, persino lo spazio davanti ai distributori di bevande.
I più silenziosi di tutti sono loro. Sembrano fantasmi. Ombre scure, sedute qua e là, isolati gli uni dagli altri. Come rannicchiati, raccolti dentro se stessi, estranei a quello che hanno intorno. Mi colpisce questo entrando nella sala grande. Il silenzio e queste figure scure, immobili. Coperti fino alle orecchie da giacconi di diverse taglie più grandi. Non fingono neanche, come nei periodi in cui la vita in biblioteca è più attiva, di leggere, per guadagnarsi il diritto a quel posto. Sono lì, avvolti nei loro baveri alti e nei loro pensieri. Sembrano assenti, non hanno connessioni con niente e nessuno intorno. Ciascuno difeso dalla propria solitudine. Meglio non farsi notare, meglio farsi piccoli, meglio essere niente.
Il mio primo pensiero è che c’è troppa luce, sono come sotto i riflettori. Bisognerebbe spegnerla, accostare le finestre, creare un po’ di penombra perché questa visione sia meno glaciale. Loro cercano di essere meno visibili, ma senza la normale vita della biblioteca intorno si vedono tantissimo, e quelle luci li espongono ancora di più.
L’anno scorso erano nell’atrio dell’ospedale. Ora, dall’ospedale, li buttano fuori. La stazione è fredda, freddissima, con le sue panche di marmo gelido. Nei negozi, nei bar, nei ristoranti non puoi entrare se non hai niente da comprare, da pagare, da consumare.
Fuori le strade sono ricoperte di ghiaccio. Si scivola. Sulle poche panchine c’è ancora la neve, ormai gelata. Niente invita a restare all’aperto: è freddo, tutto è sospeso. Entrare in biblioteca è bellissimo. La nuvola di aria tiepida che accoglie all’entrata invita a restare; il tè caldo dolciastro del distributore automatico non è mai stato così buono.
Ci sono giorni, capitano a tutti, in cui si vorrebbe solo un posto caldo dove dormire e non pensare a niente. In cui la vita è un brutto posto anche se hai una casa sopra la testa e il riscaldamento acceso. In cui stare in casa con i propri pensieri è l’unica cosa che ci può difendere, proteggere. Penso a questo quando vedo quelle ombre nella sala grande della biblioteca, che non hanno neanche un posto dove potersi nascondere. Che volentieri eviterebbero di disturbare il senso del decoro di chi entra frettoloso con gli ultimi regali in borsa.
L’unica cosa attiva e vitale in biblioteca in questi giorni è la cassetta in cui sono raccolti segnalazioni e reclami: “La biblioteca è frequentata da sbandati, dovreste fare selezione all’ingresso” “In biblioteca ci sono troppe persone che non leggono e non studiano. Dovete allontanarle”. “Ricordo con nostalgia gli anni in cui ero studentessa e in biblioteca c’erano solo persone che studiavano. Ora ci sono stranieri che bivaccano ovunque e sporcano. Non mi sento più sicura qui dentro.”
Entrare in biblioteca, restarci il tempo di scegliere il film per la vigilia e per registrare i prestiti, ma prendersi il tempo scrivere una lettera di protesta contro chi, in biblioteca, ha trovato conforto e deciso di fermarsi. Poi tornare a casa, nella propria calda casa pensando al menu del cenone, fotografare i piatti, metterli su Instagram, su Facebook. Che poi a gennaio assolutamente bisogna iscriversi in palestra per buttare giù i chili delle feste. Pensare di avere fatto il proprio dovere civico: scrivere ufficialmente chiedendo che delle persone, visibilmente in difficoltà, che certamente non hanno alcun altro posto dove andare, vengano cacciate dall’unico posto caldo in cui possono stare per un po’, che poi ci sono tre giorni di festa di fila e dove andranno dio solo lo sa.
Bisogna selezionare all’ingresso, dicono. In che modo non si sa: un’intervista all’entrata. “Scusi lei cosa viene a fare in biblioteca?” Il modello di giacca che indossa. “Scusi, lei vestito così dove pensa di andare?” Il colore della sua pelle. “Perché mica vuole farmi credere che viene qui a leggere, lei che neanche parla l’italiano?”
Bisogna tenerli fuori, dicono. Fuori sulle strade, decorate con le luci natalizie e piene di turisti. Ma anche sulle strade, non possiamo mica far vedere questo spettacolo, tutto questo degrado, i senzatetto seduti per terra al freddo, le loro coperte luride, allora scriviamo subito al giornale e al sindaco e al questore. Non vanno bene dentro, non vanno bene fuori. Stanno male ovunque. Non sono un minimo decorativi.
Nessuno, nessuno mi venga a dire che chi frequenta le biblioteche, chi ha pratica con i libri e la lettura, chi ha accesso alla cultura, solo per questo è una persona che può migliorare se stessa e il mondo. I libri, i film, le conferenze, i gruppi di lettura, gli incontri, i servizi offerti a questo genere di persone servono solo a consolidare le opportunità di cui la vita è stata prodiga, con loro. Privilegi che mai un povero cristo senza casa e senza niente potrà scalfire.
C’è una normalità feroce dentro quell’invito a cacciarli, scritto in un italiano corretto, sul modulo ufficiale dei reclami, firmati con il proprio nome, cognome, indirizzo per ricevere una risposta, dovuta per legge. Anche la malvagità ha le sue pulite procedure burocratiche.