Ha un’età indefinibile, fra i 40 e i 55 anni. Indossa un paio di giacche pesanti, una sull’altra, anche oggi che sono 24 gradi e si gira in camicia, e porta uno zaino voluminoso sulle spalle. Vive in biblioteca da qualche mese, entra al mattino e va via la sera, in chiusura. Si sposta dall’emeroteca al corridoio, al giardino nelle belle giornate. La domenica, quando la biblioteca è chiusa, non va molto lontano, nel parco vicino o sulla strada pedonale appena fuori.
Lo incontro alla macchinetta del caffè. Mi chiede, un po’ esitante, se ho qualche monetina. Vedo che gli mancano quasi tutti i denti davanti. Ho un euro in mano, glielo porgo. Lo prende lentamente, lo guarda e si trasforma. Si illumina di un grande sorriso, e come un bambino esulta, ma con un filo di voce: “Wow!!! Un euroooo!!! Grazie!!!” Gli sorrido e vedo che cerca di dirmi altro, ma non riesce, fa fatica. Sento odore di alcool, penso sia per quello. Mi fa segno con la mano di aspettare, mentre cerca di articolare i suoni e le parole. Io aspetto, lo guardo, lui si mette una mano al centro della gola, come per scortare fuori le parole e dice, con fatica, lentamente: “Non riesco a parlare bene, sono stato operato, guarda”. Sul collo ha una lunga cicatrice, da un orecchio all’altro. La conosco. Mi dice ancora: “Aspetta, guarda” e si tira su la manica del braccio destro. So quello che vedrò. Un’altra cicatrice, lungo la parte interna dell’avambraccio, che si biforca poco prima del polso. “Lo so che cos’è”, gli dico.
Tumore al cavo orale. Operano tagliando sotto la gola e risalendo verso le parti malate. Ricostruiscono poi le parti rimosse sostituendole con parti di tessuto vascolarizzato, che asportano dal braccio. Così quel pezzo di corpo può riprendere, come può, le sue funzioni.
Mi racconta con fatica e ostinazione, facendomi segno con la mano di aspettare, quando non riesce, di essere stato operato quasi un anno fa, dopo tre anni di quello che lui credeva un mal di denti che non passava mai, e quando non ce l’ha più fatta e qualcuno l’ha portato al pronto soccorso, l’hanno ricoverato subito. Gli dico che si esprime in modo molto chiaro, e che deve parlare il più possibile per migliorare l’articolazione delle parole, che è una questione di muscoli e allenamento. Gli chiedo se riesce a mangiare. So che per mesi e mesi, anni, dopo, si riesce a ingerire solo cibi liquidi o cremosi. Mi dice “Minestre e minestroni!”. Anche quello migliorerà, gli dico.
Ha negli occhi una luce brillante, mi sorride, mi fa cenno con la mano di aspettare, deglutisce, si concentra e mi racconta. Di una sua amica dottoressa, che ha scoperto che era una dottoressa solo dopo che si era ammalato. Alcuni dettagli dell’operazione. La radioterapia. E’ la seconda volta che sopravvive, dice. La prima era caduto e aveva battuto la testa, e per quindici giorni era rimasto in coma. “E ora anche questo, è la seconda volta che rivivo”. Lo dice sorridendo, anche un po’ spavaldo, con forza. E subito dopo gli occhi gli si riempiono di lacrime. E continua a sorridere, sfrontato, sdentato. “Ce la faccio, sai. Ora sto mettendo insieme le carte perché mi riconoscano un po’ di invalidità, magari prendo qualche aiuto”. “Speriamo bene allora!” gli dico mentre ci salutiamo. E lui: “No, non bisogna sperare. Bisogna crederci!”
Il degrado in biblioteca. Due mesi fa i giornali locali non parlavano d’altro. Uno studente aveva scritto una lettera al giornale lamentando la profanazione del tempio della cultura ad opera di senzatetto e vagabondi che la frequentano. La lettera fu pubblicata in prima pagina. Da quel momento tutti avevano qualcosa da dire sul degrado in biblioteca. Addirittura chi non ci era mai entrato scriveva per lamentare il degrado che non aveva mai visto. Diceva di non sentirsi sicuro. Altri dicevano che non sta bene, entrare in biblioteca e vedere tanti di loro seduti sulle poltrone tutto il giorno. Che occupavano posti che non gli spettavano, togliendoli a chi ne aveva bisogno. Anche quando la metà delle poltrone erano libere, loro comunque stavano togliendo dei posti a chi ne ha bisogno per studiare. Perché guai a mescolarsi.
Io non so quante occasioni ha avuto la persona con cui ho parlato oggi di raccontare a qualcuno della sua malattia. Una malattia tremenda, dolorosa, che lascia mutilati. Un’operazione i cui tempi di ripresa sono lentissimi, a volte durano mesi, anni. Un male che ti lascia dentro la paura più tremenda anche quando sembri guarito. Quell’uomo aveva una voglia incredibile di raccontare la sua battaglia vinta, la sua voglia di vivere, la sua fiducia, la forza che non è mai venuta meno anche nei momenti peggiori, ne sono certa dalla luce brillante che emanava il suo sguardo, dal suo sorriso sicuro.
Non so in quale altro luogo, se non davanti alla macchinetta del caffè dentro una biblioteca, sia possibile l’incontro fra due mondi, fuori così distanti. Non so dove altro sia possibile intrecciare un dialogo casuale fra chi sta, per forza o per necessità, ai limiti esterni della società e chi vive nell’agio dentro il suo cuore più caldo, nella “comfort zone” di una casa, un lavoro, vestiti puliti e cure mediche sempre disponibili. Non in altri luoghi pubblici, tutti aperti a categorie ben precise: consumatori, clienti, utenti di uffici pubblici. Luoghi a cui si appartiene temporaneamente in base al ruolo o funzione che si svolge in quel momento. Non per strada, o nelle piazze, perché ci sono le strade e le piazze malfrequentate, per loro, e quelle belle ripulite, per noi. E se uno di loro viene nella nostra piazza, non si sogna certo di venire a raccontarci la sua storia, né noi di metterci ad ascoltarla.
Va sotto il nome di degrado, ma questa per me è la ricchezza della biblioteca pubblica. Che è un posto vivo, che funziona, quando riesce a contenere in sé tutti i pezzi della società che sta fuori dalle sue mura, con tutte le sue complessità, con tutte le sue contraddizioni.
E’ il luogo delle storie, la biblioteca. Le storie narrate in migliaia di libri e le storie delle persone che la frequentano, e con l’atteggiamento aperto e fiducioso con cui cominciamo a leggere una storia, potremmo cominciare ad ascoltarla. Ci accorgeremmo che non sono poi tanto diverse, le nostre storie, da quelle degli altri; che le cose che ci tengono attaccati alla vita, quelle importanti, sono uguali per tutti. Che loro sono noi, un po’ più liberi forse, e un po’ più sofferenti, e con vestiti più vecchi dei nostri.
Poi oggi ho letto questo. Racconta di una titolare di un fast food che, avendo notato che qualcuno, dopo la chiusura, rovistava nelle immondizie per cercare qualcosa da mangiare, ha messo un cartello sulla vetrata del locale, invitando quella persona a venire di giorno e a mangiare un buon pasto, gratis. “No questions asked”, sono le ultime parole dell’avviso.
Ecco, questo vorrei che fosse scritto sulle porte di tutte le biblioteche: “Entra, chiunque tu sia. Non ti verrà chiesto nulla”.
Post davvero bello ed a tratti toccante, che svela in modo impietoso le mille ipocrisie della nostra società (da manuale quella di coloro che non sono mai stati in biblioteca ma si indignano ugualmente); ciò premesso credo però sia importante stare attenti a non “esagerare”. A prescindere dall’idea che ciascuno di noi può avere di biblioteca e del suo ruolo nella società (incentrata sulla comunità e sulle relazioni “alla Lankes” oppure più conservatrice, con i classici servizi incentrati sul libro), penso sia necessario fare delle distinzioni Un conto è il clochard che entra in biblioteca per accedere ad uno qualsiasi dei servizi che essa offre (tra questi annoveriamo pure una parola con il bibliotecario: non è forse l’empatia una delle qualità della librarianship?), un altro quello in cui il clochard entra per trovare riparo dal freddo, dal caldo, una poltrona comoda, etc.
Nel primo caso, evidentemente, le porte sono aperte così come per qualsiasi altro utente / cittadino; nel secondo caso, al contrario, credo che il problema debba essere affrontato dagli appositi uffici/servizi sociali presenti per legge nello stesso ente di appartenenza della stragrande maggioranza delle biblioteche pubbliche italiane (ovvero il Comune),
Pertanto, in sintesi, credo che le biblioteche debbano restare biblioteche e non trasformarsi in centri diurni per senzatetto (strutture purtroppo molto rare nelle nostre città e, quando presenti, non sufficienti ad accogliere tutti specialmente in questa difficile congiuntura); quel che dobbiamo fare è invece pretendere che chi decide ed ha in mano i cordoni della spesa appronti strutture capaci a ciascuno (siano bibliotecari, assistenti sociali, etc.) di fare il suo e di farlo nel migliore dei modi possibile.
L’ha ribloggato su bibliotecalesca.
@Simone Vettore: il fatto è che le cose non sono così distinte, spesso chi passa in biblioteca tutto il giorno perché non ha un altro posto dove andare a scaldarsi, passa il tempo leggendo il giornale, chi ha uno smartphone usa il wi-fi (“perché altrimenti mi vengono i pensieri tristi”, mi ha detto uno di loro, “almeno così mi distraggo”), sono davvero pochi quelli che non fanno niente per otto ore, e in biblioteca l’alternativa a non fare niente è leggere, guardarsi intorno, parlare con qualcuno, prendersi un caffè, usare internet. In qualche modo quello che fanno anche “gli altri”.
Dovrebbero esistere posti dove queste persone possano passare le giornate lontani dalle strade, e di questo dovrebbero occuparsi i servizi sociali, certo, ma c’è un altro aspetto della questione.
Essi non cercano solo un posto caldo in biblioteca; cercano un posto in cui possono somigliare di più alle persone normali, in cui non sono una categoria svantaggiata, “i senzatetto”; un posto in cui possono stare in mezzo alla società, e non ai margini. Provano a mescolarsi, ad attraversare la società, e almeno in biblioteca questo può succedere. I servizi sociali rispondono, quando lo fanno, solo ai bisogni primari, ma loro sono persone, e quale persona si percepisce, nella propria identità, soltanto in relazione ai propri bisogni primari? Sono persone, non categorie.
Io credo che ci sia la possibilità per le biblioteche pubbliche di essere accoglienti senza diventare centri diurni per senzatetto. Si deve tenere presente quello che io considero un principio, e cioè che una biblioteca pubblica che funziona è in grado di tenere insieme tutte le parti di una società che sta fuori. E’ una continua negoziazione, tutti i giorni: favorire la mescolanza, non creare ghetti, parlare con tutti, rispiegare ogni giorno cosa si può e cosa non si può fare, raccontare chi sono queste persone a chi le vive come degrado, non dimenticare mai che i servizi vanno garantiti per tutti. Questo significa, per esempio, difendere il diritto a leggere il giornale di un senzatetto, ma anche non accettare che una sala sia resa impraticabile dal cattivo odore di qualcuno, e allora bisogna spiegarglielo a questo qualcuno, che può stare nella nostra biblioteca se si lava e si cambia (e questo qualcuno deve poter trovare, fuori, un posto dove lavarsi e cambiarsi)
L’anno scorso ho scritto un lungo testo su questo tema, in cui racconto anche alcune esperienze pratiche di gestione di questi casi: http://tropicodellibro.it/bibliotecari/biblioteca-senzatetto/