Una declinazione di “Civil Hacking”

Il 22 novembre 2018, al 60° Congresso nazionale dell’Associazione Italiana Biblioteche, sono stata invitata a intervenire sul tema della biblioteca pubblica come “officina” per la produzione collaborativa di contenuti e servizi.

Qui il video dell’intervento.

Sono molto grata a Erika Marconato, amica delle biblioteche e instancabile civil hacker, che propone in un suo post un’attenta analisi dell’ intervento, trovando nell’esperienza della mia biblioteca e nelle mie parole un senso e dei significati che io stessa non immaginavo così potenti, e indicando in questo un “metodo” per le Pubbliche Amministrazioni che vogliono diventare “piattaforme abilitanti” per la reale partecipazione dei cittadini.

Erika cura insieme a Matteo Brunati il progetto #CivicHackingIT, che credo riguardi moltissimo le biblioteche, anche quando non se ne parla.

 

Ispirazioni

Qualche giorno fa al cinema ho visto Ex Libris: New York Public Library, il documentario di Frederick Wiseman sul sistema bibliotecario della città di New York. Pensavo di uscirne frustrata, e invece passano i giorni, più ci penso, e più mi sento ispirata.

Il robot si muove dritto sul tavolo, ma non si ferma. Arriva quasi all’orlo. Il bambino davanti al computer non sa cosa fare, sta fermo, gli altri bambini guardano e si chiedono se si fermerà prima di schiantarsi per terra. Interviene un ragazzo più grande, ferma con la mano il robot e dice ai ragazzini: “Ricordatevi, a ogni azione corrisponde un pezzo di codice. Se non si ferma, significa che manca il blocco di codice che gli dice di fermarsi. Quindi aggiungete il codice e riprovate. Io passo dopo perché mi chiamano di là”. Immediatamente i ragazzini si rimettono al lavoro, la telecamera si sofferma su altro, sui monitor i blocchi di Scratch, e poi cavi, piccoli transistor, altri oggetti elettronici; infine torna da loro, il robot stavolta si ferma, e i bambini tutti contenti, ci sono riusciti!

Ancora con bambini. Ci sono bibliotecarie e volontari che li aiutano a fare i compiti di matematica. Una donna, sorridente ma ferma, dice al bambino: “Va bene, leggi pure quel bel libro, ma poi ricordati che devi finire l’esercizio”. Il bambino immerge la testa nel libro, e lei si volta ad aiutare una ragazzina sull’altro lato del tavolo. I genitori non sempre riescono a seguire i propri figli nello studio: sono al lavoro, oppure sono di recente immigrazione e non conoscono la lingua, e poi si aggiunge il problema che la didattica della matematica è cambiata radicalmente negli ultimi anni, per cui i genitori non possono ricorrere neanche ai loro ricordi di studenti, se hanno studiato, per aiutare i figli. E allora la biblioteca fa due cose: decide che da qui a un anno le raccolte di matematica (strumenti didattici, kit per insegnanti, libri di esercizi, supporti per lo studio) saranno prioritarie e quindi buona parte del budget degli acquisti sarà dedicato ai testi per l’apprendimento della matematica; e che il “doposcuola” in biblioteca continuerà, ma cominceranno anche incontri per genitori, che impareranno ad usare gli strumenti didattici per la matematica per poter essere in grado di aiutare i figli nello studio. Genitori e figli studiano insieme, così è più facile per tutti.

In un altro spazio della biblioteca, in un altro momento, un gruppo di uomini e donne afroamericani discutono della loro condizione di minoranza. Sono incontenibili la rabbia e la frustrazione di una donna: “Quello che più non riesco ad accettare”, esclama, “è che c’è un libro, e un libro serio, e di un grande editore, McGraw Hill, che definisce ‘lavoratori’ gli schiavi! Dice che vennero negli Stati Uniti come lavoratori! Come lavoratori!”. La risposta del bibliotecario: “Voi qui avete una forza: la vostra biblioteca. Qui ci sono i libri che dicono cosa è successo davvero, noi qui possiamo studiare la nostra storia, trovare i documenti che provano cosa è stata la schiavitù, possiamo provare al grande editore che quello che ha scritto è sbagliato.” Non dice che in biblioteca non si fa censura, non dice che la biblioteca è neutrale ed equidistante da tutte le posizioni, che il pluralismo della biblioteca si esercita dando rappresentanza a tutte le voci; non dice che non spetta alla biblioteca decidere cosa è vero e cosa è falso; non cita i codici deontologici e i manifesti, di fronte a una domanda che grida giustizia così forte, e che esige una risposta altrettanto forte. Perché è comodo proclamare la neutralità, se si è nati nella parte ricca e bianca del mondo, se si è vissuti a favore di tutte le opportunità, dove si può persino scegliere il punto in cui si posiziona una neutralità definita a propria immagine e somiglianza.

Da un’altra parte, c’è chi si mette in fila per prendere in prestito un hotspot per avere connettività internet a casa propria. Si prestano per un anno, sei mesi. Poco prima si vedeva una riunione del direttore con lo staff, in cui si analizzavano alcuni dati: un cittadino su tre non ha accesso alla rete. L’amministrazione della città di New York ha individuato il problema dell’accesso alle tecnologie dei cittadini come prioritario nei programmi da finanziare.  Internet è fondamentale per esercitare i propri diritti di cittadino, per la crescita personale e culturale, per la formazione, l’emancipazione, per accedere alle informazioni, per vivere pienamente nella comunità e nella contemporaneità, per non perdere quelle opportunità di cui la vita di chi non può permettersi una linea Internet in casa è stata povera. A nessuno sembra strano che la biblioteca investa in hotspot da prestare. Che senso hanno i corsi di alfabetizzazione informatica se poi uno non ha la connettività per accedere ai servizi?

Una classe di adolescenti ascolta in silenzio il bibliotecario che presenta la collezione di immagini. È una collezione storica, si è formata in quasi un secolo. Serve “per ispirare“, per stimolare la creatività, l’immaginazione, il talento artistico di chiunque voglia usarle. E per questo sono state ordinate secondo due principi, entrambi a favore di chi usa la collezione: la classificazione per soggetto rappresentato nell’immagine (vediamo il faldone “Animals in action”, con foto antiche e moderne, disegni, stampe di animali che saltano, cani su due zampe, leoni) e la libera disponibilità a scaffale aperto. “Quindi, ragazzi, ora prendete pure la raccolta che preferite e ispiratevi!” è l’invito rivolto agli studenti. E li vediamo subito dopo, da soli o in gruppo, assorti nella visione di immagini di ogni genere, i volti così belli e diversi fra loro, concentrati e silenziosi, il tavolo pieno di carte illustrate di tutte le dimensioni.

Se pensate che il linguaggio dei segni sia una forma di traduzione esclusivamente comunicativa, vi sbagliate. Quello dei segni è un linguaggio caldo, in grado di trasmettere emozioni. Si fa fatica a crederlo, e allora facciamo un gioco: un pezzo della Costituzione degli Stati Uniti, famosissimo, viene letto prima come se fosse un’arringa al popolo, con tono alto e rivendicativo; successivamente come se fosse una supplica, un’istanza a un’entità superiore. Un’attrice interpreta con i segni entrambe le letture. I segni sono i medesimi, eppure, se vedessimo solo quelli senza ascoltare il testo, saremmo certi di assistere alla lettura di due testi completamente diversi. Rincuora capire in modo così immediato che le possibilità espressive di chi non può comunicare con la voce possano essere tanto efficaci; interessante capire che la lingua, qualunque lingua, è molto di più di un segno o una convenzione.

Il direttore dice al suo staff che bisogna chiedersi, quando si scelgono i libri da acquistare, quali saranno quelli che fra dieci anni il pubblico cercherà in biblioteca. Sono tutti d’accordo su questo.

Libri in realtà se ne vedono pochi, e se ne parla ancora meno. Ma si sa che ci sono, che sono milioni, tanto da richiedere un lungo binario automatizzato per il loro smistamento. Si vedono però soprattutto persone, giovani, studiosi, bambini, poveri, anziani, senzatetto, disoccupati, persone perbene, pubblico che assiste ad incontri, performer, artisti, madri, passanti, disabili, celebrità. Sono i bisogni delle persone al centro di ogni minuto di attività della biblioteca: alla postazione di assistenza agli utenti come alle riunioni dello staff del direttore. Si parla di ciò che serve e di come realizzarlo, con quali partner, dove trovare i soldi, si analizzano dati, si costruiscono programmi osservando come si muove, come si esprime, cosa cerca chi viene in biblioteca e chi ne sta fuori. 

E le persone, che sono individui nel momento in cui la biblioteca lavora per l’empowerment di ciascuno,  sono in realtà sempre pensate, vissute, servite in quanto parte di una comunità. Questo è probabilmente il filo di senso che attraversa le decine di sequenze del film, e la vita quotidiana di questa grande biblioteca. La presenza della comunità: il diritto di farne parte, come strumento di crescita, come spazio di identità. Una comunità multiforme, in cui chiunque può trovare un posto, può agire attivamente, può sentirsi a casa. In questo senso, le molte attività che apparentemente non hanno molto a che fare con la vita di una biblioteca (le donne anziane che ballano, il prestito di connettività internet, il concerto di musica da camera, la cena di gala dei ricchissimi donatori), che pure da noi ogni tanto vengono proposte dalle biblioteche come “iniziative” isolate, innovative per il solo fatto che non si sono mai fatte prima, qui assumono un senso importante, quello di far emergere in modo organico ogni nodo, ogni incrocio, ogni filo che compone la grande rete della comunità di riferimento. La ricchissima trama che la compone, e la visione d’insieme. In questo contesto, chi chiede informazioni sull’esistenza degli unicorni è importante quanto il ricco sponsor invitato alla sontuosa cena di finanziamento della biblioteca.

Il film è lungo, molto lungo, e giustamente. Non vuole solo mostrare e raccontare, vuole farci provare, farci vivere qualche ora dentro quella biblioteca. Vuole che diventi un piccolo pezzo della nostra esperienza, almeno per qualche ora. Se siete bibliotecari, prendetevi quelle tre ore e mezza e chiudetevi in un cinema a vedere questo film. Non lasciatevi spaventare dalla lentezza e dalla durata. Anche i convegni sono lunghi, e a volte si impara molto, ma non ne sono mai uscita così ispirata.

Oggi non ho fatto niente

Oggi ero io, in biblioteca, quella che non faceva niente. Avevo finito di lavorare presto e avevo un altro impegno in città dopo due ore, e fuori era freddo. Così ho scelto la biblioteca, perché era un posto caldo dove poter stare senza che qualcuno venisse a chiedermi qualcosa. Sono stata seduta un bel po’ e non ho toccato neanche un libro: non avevo voglia di leggere. Ho risposto a qualche email dallo smartphone usando il wi-fi della biblioteca, e poi ho passato il tempo a guardare gli altri, perché se c’è una cosa che non mi stancherei mai di fare nella vita è starmene in qualche posto, da sola, a guardare la gente che passa.

No, non ho usato la biblioteca per i suoi servizi, a parte un po’ il wi-fi. Ero una che non faceva niente. Come quelli che giorni fa nominava il tal politico: “Sono passato in biblioteca giorni fa, certo ne avete di gente che non fa niente“. Come quelli che ci mandano in crisi, noi bibliotecari, nei giorni di pioggia: tanti i posti occupati da quelli che non fanno niente. Come quelli che spingono diligenti studenti universitari a scrivere lettere al giornale lamentando la violazione del tempio della cultura da parte di chi non fa niente.

Alcuni sono personaggi noti: ogni biblioteca ha i suoi, quelli che ricorrono negli aneddoti curiosi dei bibliotecari. La donna dal volto di indecifrabile tristezza che ogni tanto, furtivamente, si cerca un angolo nascosto e si mette a riordinare i libri fuori posto sugli scaffali. L’ anziano signore che tutte le mattine è il primo ad entrare, si siede dove trova posto, tira fuori fogli di carta bianca e matita e disegna le persone che vede, poi verso le undici esce e non si vede più per il resto della giornata. L’altro signore che in biblioteca ci passa tutto il giorno con un libro in mano, che si porta da casa, e che interrompe le lunghe giornate senza fare niente con qualche mezz’ora di lettura. Le signore straniere che fanno le pulizie negli uffici, abitano chissà dove in periferia e le corse dell’autobus sono rare, arrivano con molto anticipo, si cercano un posto e aspettano chiacchierando sottovoce. Chi viene nella pausa pranzo a mangiare in giardino qualcosa che ha preparato in casa e chiuso in un contenitore di plastica. I ragazzi che escono da scuola e aspettano che qualcuno li venga a prendere. La ragazza che viene con un bambino piccolo, cerca una poltrona in un angolo discreto e si mette ad allattarlo, e quando ha finito va via. I tanti immigrati che aspettano: un permesso di soggiorno, una casa, un lavoro, l’ora di cena, un treno, un compagno di viaggio, o semplicemente che qualcosa accada mentre i giorni trascorrono.

E insieme a loro altri, invisibili perché non si fanno notare: non chiedono, non disturbano. Si mescolano nel via vai quotidiano.

Tutti hanno in comune una scelta: passare del tempo in biblioteca, indipendentemente dall’uso dei servizi che questa offre.
Hanno scelto gli spazi, e insieme la compagnia indistinta degli sconosciuti che la frequentano; la possibilità di essere anonimi, e nello stesso tempo di affermare la propria unicità in uno spazio dove chiunque può trovare il suo posto.

Avevo letto qualche tempo fa questo post di Marco Goldin, a proposito della parte silenziosa della comunità rilevata dai social media. L’articolo è interessantissimo e dice cose sorprendenti sulle comunità invisibili che popolano le pagine Facebook. Noi contiamo i like e le condivisioni dei post, e non ci accorgiamo che esistono interazioni, nodi e reti intorno alla nostra attività social che non vediamo, e per questo pensiamo che non esistano. Vediamo per esempio che un post non ottiene dei like e di conseguenza possiamo anche decidere di non postare più altro di quella tipologia. E sbagliamo.

Io leggevo e pensavo: ma non è che questo accade anche dentro il mondo fisico delle biblioteche? Noi contiamo i prestiti e gli iscritti al prestito e facciamo i profili di comunità e organizziamo i servizi sulla base di questi dati. Bene, ma quelli che ci scelgono per altri motivi, o semplicemente per nessun motivo preciso, chi sono, dove li mettiamo? Abbiamo una responsabilità nei confronti della loro scelta? Credo di sì.

Abbiamo creato luoghi accoglienti, sicuri, rispettosi dell’unicità di chiunque (se siamo stati bravi). Abbiamo creato spazi in cui anche solo passare il tempo, senza usufruire dei servizi, può fare la differenza per le persone che li frequentano. Sono persone che non vanno altrove, che scelgono la biblioteca. Perché non esiste un altrove in cui si può vivere una dimensione così intimamente propria e così fortemente collettiva come la biblioteca.

Di sicuro, la biblioteca non l’abbiamo organizzata così per loro, tenendo presente quel target di riferimento. Perché quel target non esiste nei profili di comunità, nelle analisi dei bisogni. Eppure, con la loro presenza, queste persone sono preziose, perché contribuiscono a dare questa identità libera alla biblioteca pubblica, questo senso di gratuità – perché nulla è richiesto a chi entra.
Allora mi chiedo se non sia nostro compito anche avere cura di queste esigenze, ricordandocene ogni giorno e cercando un equilibrio fra la funzionalità degli spazi e la cura della loro neutralità, lasciando che siano le persone – che sono singoli e comunità insieme – a caratterizzarli, a renderli mutevoli, flessibili, funzionali anche in base alle proprie necessità e non solo secondo il criterio dei servizi offerti.
E questo, in fondo, vuol dire anche avere cura di spazi sociali sani, in cui è possibile coltivare forme spontanee di rispetto e di convivenza civile.

Una questione di identità

Oggi al supermercato ho incontrato Sara.

Era bellissima, con i suoi lunghi capelli neri e gli occhi scuri sempre vivaci, il sorriso dolce e sfrontato, uguale a quello della prima volta che l’ho vista. Incredibilmente, con lei c’era la sua amica Yasmin: quindici anni fa, forse poco più, loro bambine di seconda elementare arrivate da pochi mesi in Italia, io bibliotecaria della periferia urbana della mia città, erano inseparabili. Alcuni bambini piccoli ci giravano intorno nella nostra breve conversazione fra gli scaffali. Con un sorriso abbiamo detto entrambe “Ti ricordi di me?”. Certo che ci ricordavamo. Abbiamo rievocato insieme la vecchia sede della biblioteca; le ho detto ancora: “Quando penso a quegli anni e a quella biblioteca, non posso fare a meno di ricordare anche te”. Lei era stupita, non pensava forse di essere così speciale. Non lo ricordava.

Venne la prima volta in visita alla biblioteca con la sua classe. Io raccontai loro della biblioteca, del codice segreto che identifica magicamente il posto di ciascun libro sulla scaffale; risposi alle loro domande spiegando che no, quei libri non erano tutti miei, e che no, non li avevo letti tutti, e poi li tirammo fuori insieme dagli scaffali e sul grande tappeto, bimbi e libri in ordine egualmente sparso, leggemmo delle storie. Come sempre, poi alla fine tutti andarono via con la testa piena di quei racconti, e in mano il modulo da riportare firmato dai genitori.

Non tutti poi tornano. Lei invece fu la prima a tornare, quello stesso pomeriggio. Aveva in mano il modulo, voleva la sua tessera della biblioteca.

Timida, ma guardandomi dritta negli occhi me lo porse. Lo presi, guardai il modulo: un attimo di sorpresa. Sorrisi, la guardai e le chiesi: “Ti chiami davvero Sara?” E lei, sicura: “Sì”. “E anche tua madre si chiama Sara?” “Sì”. Il cognome di quella bambina maghrebina risultava essere uno dei più comuni della città, e anche la madre a quanto pareva portava quel nome e cognome. Nello spazio in cui si riporta il numero di documento di identità di un genitore, c’era una sequenza di numeri a caso che neanche riuscivano a stare sulla stessa riga. Il modulo era compilato con una grafia incerta: era inequivocabilmente scritto da una bambina che aveva appena imparato a scrivere.

Ho pensato e ripensato anche in seguito a quello che poteva essere successo. Forse i genitori preferivano non firmare documenti ufficiali non indispensabili appena arrivati in un paese nuovo e sconosciuto. Forse la madre non aveva un documento da allegare, richiesto per l’iscrizione dei minori. Forse le avevano negato il permesso di andare in biblioteca, o di avere una tessera personale, magari per il timore che i figli rovinassero i libri presi in prestito e di doverli in quel caso rifondere. Forse, semplicemente, non aveva detto niente a nessuno ed era stata una sua iniziativa.

Senza chiedere altro, cominciai a inserire quei dati palesemente falsi, e qualche minuto dopo la tessera era pronta. La bambina si precipitò verso i libri che aveva sfogliato la mattina, ne prese subito in prestito il numero massimo possibile, e poi restò in biblioteca fino all’ora di chiusura. Nei giorni, settimane, mesi e poi anche anni successivi, lei era sempre lì, sempre con la sua amica Yasmin. Decine e decine di libri sono usciti  dalla biblioteca e poi rientrati passando da casa sua (qualcuno sì, è tornato con le pagine strappate: erano stati i suoi fratellini, mi diceva sempre. “Loro non hanno cura dei libri”).

Mi colpì tanto la storia di quella bambina molto piccola che, arrivata da poco in Italia, già si percepiva come una persona che aveva qualche diritto in meno rispetto agli altri bambini, che in Italia ci erano nati. E che si era organizzata subito per colmare questa differenza: con intelligenza, prontezza di spirito, ma anche con la forza e tutta la spontaneità della sua convinzione di essere come gli altri. I bambini lo sanno, e praticano la loro appartenenza ad un mondo di pari in modo istintivo: perché mai dovrebbero lottare per affermarlo?

Anche oggi, salutando quella donna molto bella, curata, sicura, dallo sguardo fiero e il sorriso dolce, le ho detto: “Ciao, Sara”. Non ho mai saputo il vero nome di quella bambina che si fingeva italiana per poter frequentare la biblioteca. Ma che importa.