Il catalogo dei libri azzurri, ovvero, il senso e la bellezza dei dati

Knowledge Design: costruire nuovi modelli del sapere,  è il tema di una conferenza che Jeffrey Schnapp ha tenuto il 16 dicembre 2016 all’Università di Trento, alla quale ho potuto assistere. Qui un resoconto molto parziale dell’incontro, con alcune mie riflessioni. Ringrazio Jeffrey Schnapp per avermi fornito alcuni materiali della sua presentazione.

Il modello del processo di ricerca in ambito umanistico è tradizionalmente quello che parte da un lungo lavoro di reperimento e accumulo di dati, dal loro studio e interpretazione, dalla scrittura dei risultati, dal lavoro redazionale sul testo, fino alla sua pubblicazione. Questo percorso, a volte talmente lungo che la ricerca diventa superata nel momento in cui è pubblicata, è oggi messo in crisi dalle opportunità offerte dagli strumenti digitali, che riavvicinano sempre più ambito scientifico e umanistico, e riportano la conoscenza al confluire di competenze, esperienze, linguaggi più diversi e non ad un preciso ambito definito a priori che si sviluppa secondo un processo prevedibile.

Il modello di digital humanities cui guardare oggi è quello del laboratorio: si fa, si elabora, si produce parlando (ed essendo in grado di interpretare) contemporaneamente linguaggi diversi. Più che di uno staff di ricerca che rappresenta tutte le competenze necessarie, si parla qui di un metodo, che vede nell’annullamento dei confini fra le discipline l’elemento generativo del sapere. Il libro, quindi, può essere solo uno dei nodi all’interno di un processo reticolare che è esso stesso il percorso della ricerca, che si comunica mentre si realizza, mentre si mette in relazione con altre specificità e ambiti inimmaginabili secondo il modello tradizionale di ricerca umanistica.

Il compito dell’umanistica digitale è proprio quello di ridisegnare  i percorsi in cui si sviluppano saperi, creando nuovi modelli che includano come parte essenziale del processo di ricerca anche nuove forme di comunicazione, di argomentazione, di “modelli di persuasione”.

Per fare queste cose non bastano studiosi, informatici, bibliotecari, conservatori, artisti del digitale nel senso di professionisti che lavorano in team ciascuno per la propria parte; è necessario che queste competenze attraversino  tutte le professionalità, almeno fino al punto di riuscire a parlare un linguaggio comune. Solo su questa base poi possono agire gli specialismi.

L’elemento costitutivo del processo della conoscenza in questo contesto sono naturalmente i dati. Che da soli sono o brutti o inutili, intorno ai quali ruota tutto un lavoro di critica, elaborazione che li rende meaningful or beautiful:

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Meaningful and beautiful, mi piace di più.

Non si possono separare infatti i concetti di utile e bello vedendo muoversi sullo schermo una mappa diacronica che si popola, man mano che gli anni scorrono in una colonna in basso a sinistra, di luci più o meno grandi in corrispondenza dei luoghi della storia della stampa in Europa, progetto che alle spalle ha un database di dati bibliografici.

Così come bella, bellissima (e utile, utilissima), è un’immagine che ricorda un quadro astratto: sfumature di tutti i colori che si attraversano ed estendono in aree più o meno vaste, che rappresentano una distribuzione di tutti colori presenti nelle opere  di un museo, così basta cliccare su una particolare tonalità per vedere in quali opere questa si trova. Questo grazie a un database in cui i musei buttano dentro le immagini, e poi uomini e macchine fanno il resto. Danno significato e bellezza.

Per chi si chiede quale sia il compito delle biblioteche in questi tempi in cui abbiamo (noi, biblioteche) perso, semmai l’avessimo avuta, l’esclusiva delle fonti della conoscenza, questa a mio avviso è una delle risposte: produrre dati e renderli disponibili. Forse non saremo noi a renderli utili e belli, ma questo lasciamolo fare alle persone e alle macchine che lo sanno fare (se ne parlava anche qui). Nostra è la responsabilità, oggi, di attivare processi che trasformino la conoscenza che le nostre biblioteche conservano in dati, cioè in unità costitutive del sapere in epoca digitale.

Per farne cosa? Credo non debba interessarci più di tanto. Significativa una piccola provocazione che Schnapp ha raccontato: ai bibliotecari della Library of Congress che difendevano la perfezione dei metodi di catalogazione bibliografica da loro utilizzati, egli chiede: “Ma io posso, con i vostri dati, vedere quanti libri azzurri avete?”

Dobbiamo quindi fidarci di quello che chiunque vuol farne, che sia un catalogo dei libri azzurri o un database delle occorrenze di un corpus di testi medievali o una nuova trascrizione filologica di un manoscritto o una mappa tematica di un determinato argomento, o altro.

Tanto, insiste Schnapp, nessuno potrà danneggiarli. I dati resteranno integri, qualunque sia l’uso che se ne faccia.

Sarà questa la nuova identità delle biblioteche, sono questi gli scenari futuri? Mi aspettavo che, alla domanda sul ruolo delle biblioteche in questi nuovi processi della conoscenza, Schnapp proponesse concezioni ultra-innovative di biblioteche come laboratori di produzione ed elaborazione di conoscenze digitali, e lui ha risposto invece parlando delle antiche biblioteche di Pergamo e Alessandria, che erano ecosistemi della conoscenza: luoghi di conservazione dei documenti, in cui operavano filologi e studiosi che interpretavano e trascrivevano le opere, in cui esisteva una sala che ospitava il confronto e il dialogo e dove si tenevano lezioni. Conservazione, elaborazione, circolazione del sapere avvenivano in un unico processo.

L’epoca digitale ripropone questo processo, che non deve però isolarsi nel solo contesto digitale anzi: oggi come allora sono fondamentali gli spazi fisici, luoghi dove far interagire le persone intorno alle risorse della conoscenza.

Fino ad ipotizzare proposte audaci per le biblioteche pubbliche locali: collezioni mobili e collocazioni temporanee, che forniscano alle persone tutti gli elementi di conoscenza per la discussione e l’elaborazione partecipata di determinati problemi molto sentiti dalla comunità. Una proposta alternativa al modello di biblioteca pubblica universalistica che varrebbe la pena di sperimentare.

Dove non si parla di libri

I protagonisti di questa storia sono: una biblioteca pubblica, un social network, un cittadino della ex­-Jugoslavia, un centinaio, o forse più, di sconosciuti che hanno scritto una voce su Wikipedia.

La storia è molto breve. La biblioteca decide di mettere in mostra dei libri di narrativa di autori dell’area balcanica; espone anche delle mappe che rappresentano le diverse fasi di costituzione del territorio della ex­-Jugoslavia negli ultimi 25 anni. La foto delle mappe è pubblicata sulla pagina Facebook della biblioteca, insieme a un breve testo che promuove l’iniziativa.

Il post su Facebook viene commentato con toni piuttosto accesi da una persona che protesta perché, nell’ultima mappa, il territorio della Bosnia-Erzegovina non rappresenta il vero ordinamento di quello Stato. La questione è delicata, perché c’è stata una guerra in cui qualcuno ha combattuto e subito sofferenze prima di arrivare all’attuale ordinamento, e chi scrive fa notare come egli stesso e il suo popolo siano stati coinvolti. Si capisce che non si tratta di una mera disquisizione storico-politica, ma che ci sono ferite ancora brucianti che lo spingono ad intervenire.

La bibliotecaria controlla la pagina di Wikipedia sulla Bosnia-Erzegovina, verifica che la voce sia attendibile confrontandola con la voce analoga della Wikipedia in inglese, controlla la cronologia della voce italiana, per capire quante persone ci hanno lavorato: sono moltissime, oltre un centinaio. Controlla la pagina di discussione di quella voce: almeno una ventina di persone si sono confrontate sui contenuti, sulle fonti, sulla correttezza della terminologia e della toponomastica. C’è stata ricerca, discussione, consenso.  E tutto conferma che la segnalazione dell’utente era corretta.

Accertato questo, la bibliotecaria rettifica l’informazione su Facebook, segnalando l’errore nell’ultima mappa e la voce di Wikipedia per i dettagli; la persona che aveva protestato conferma con un “like” e la storia finisce qui.

Questa storia parla di biblioteche, di correttezza delle informazioni, di verifica delle fonti. Ma non parla di libri, di autori, di esperti. Non è uno studioso di geopolitica che ha segnalato l’errore alla biblioteca, è una persona che ha vissuto una guerra. Non è stato il saggio sulla storia recente della ex­-Jugoslavia a fornire le informazioni corrette, né il parere di un professore universitario. Sono state un centinaio di persone, che hanno verificato fonti, discusso, chiesto pareri, risposto a dubbi, fino a costruire una voce corretta e condivisa dentro Wikipedia.

Certo, le fonti primarie sono i libri e gli studi e i documenti, ma non bastano solo quelli. Sono le persone a produrre e tenere viva la conoscenza, e questa cresce e si diffonde solo attraverso relazioni virtuose fra i saperi di tutti: dello studioso, dell’immigrato, degli sconosciuti che hanno scritto Wikipedia. Nessuno degli interlocutori di questa storia conosce gli altri protagonisti, ma ciascuno ha partecipato per costruirla. E tutto è avvenuto con strumenti, modalità, dinamiche che non avrebbero mai potuto verificarsi in contesti diversi da quello digitale.

Il primo post di questo blog toccava il tema delle biblioteche digitali partecipative, nell’ambito di un dibattito in corso in quei giorni fra i bibliotecari: qualcuno, sorridendo, diceva che dovevamo interrogarci se queste esistessero o meno, e cosa fossero, o per lo meno come declinarle nella nostra realtà lavorativa.

Ecco, quello che è successo su Facebook giorni fa credo che sia un buon esempio di biblioteca digitale partecipativa. Non serve che ci sia un’insegna sulla porta o un banner su un sito o un progetto strutturato che la qualifichi come tale: una biblioteca è digitale e partecipativa quando succedono cose come questa, anche se l’istituzione in cui ciò avviene ha oltre 150 anni di storia.

La biblioteca è un organismo che cresce.

La biblioteca è un organismo che cresce e sa trasformarsi anche intorno a un particolare contesto che lo richiede: le informazioni sono ovunque, chiunque può rettificarle, contestarle, arricchirle, chiunque può portare un pezzo di sapere; questo diventa fertile solo se si genera una relazione, solo se si confronta con altri saperi. Si può rendere prontamente disponibile ogni genere di informazione e conoscenza attraverso strumenti come un post di Facebook, una critica di uno sconosciuto, la fiducia nel lavoro di una comunità che si è creata intorno ad una voce enciclopedica. Tutti elementi estranei alla pratica lavorativa di molti bibliotecari (e certamente di tutti, fino a pochi anni fa), ma che oggi permettono alle nostre biblioteche di crescere, continuando a fare quello che hanno sempre fatto.

Uscire dalla comunità

(Durante il Convegno delle Stelline 2015 si è svolto un interessante dibattito sul tema biblioteche digitali partecipative. Successivamente sono intervenuti su propri blog Andrea Zanni,  Enrico Francese, Valeria Baudo.  In questo testo aggiungo alcune riflessioni che non ho avuto il tempo di sviluppare in quella sede)

Tutte le comunità sono chiuse per definizione, perché vincolate dall’interesse che ne tiene insieme i membri, e anche quella dei bibliotecari lo è. Ma è anche una comunità anomala, perché il suo interesse non è circoscrivibile al suo interno, anzi è fuori. Nel dibattito odierno l’interesse della comunità dei bibliotecari riguarda le altre comunità, potenzialmente tutte.

Parliamo fra noi di chi sta fuori. E ogni tanto ci viene il dubbio di non sapere di chi stiamo parlando. Perché fuori ci sono tutti, sotto forma di singoli e di comunità, e noi, se restiamo su un piano strettamente fisico, conosciamo solo una minima parte di questi, nella migliore delle ipotesi quel 12% che le biblioteche le frequenta.

Non è una novità l’interesse dei bibliotecari verso la comunità, c’è sempre stato: abbiamo passato anni a censire il nostro bacino d’utenza, a tracciarne il profilo, aggiornarlo a tutti i cambiamenti, costruire le nostre raccolte e i nostri servizi sulla base dei loro interessi. Ma adesso le cose si complicano perché la comunità delle biblioteche non è più quella territoriale, né quella istituzionale. La comunità è ovunque, potenzialmente anche all’altro capo del pianeta, e soprattutto, la comunità può andare ovunque. Anche lontano dalle nostre biblioteche. Va dove trova risposte, va dove può soddisfare i propri bisogni. Si scioglie e si ricrea in altre forme sempre mobili, sempre meno classificabili.

Abbiamo capito che vogliamo la loro partecipazione, forse più per conoscerle meglio che per coinvolgerle nella progettazione dei servizi: abbiamo ancora troppa ansia da controllo per passare dal lavorare per loro a lavorare con loro.

Io più ci penso e più mi convinco che dobbiamo essere noi bibliotecari per primi a partecipare. Dobbiamo trovarci come abbiamo fatto alle Stelline, confrontarci, parlarne, e facciamo bene, ma poi anche e soprattutto uscire dalla nostra ed entrare nelle altre comunità. Se resteremo “solo” bibliotecari saremo sempre altro da loro; se staremo sempre attenti che i confini fra la nostra e le altre comunità siano segnati, convinti che spetti a noi decidere quando e dove aprire punti di attraversamento, potremo solo nella migliore delle ipotesi compiacerci dell’avanzamento di uno sterile dibattito interno.

Potremmo scoprire, per esempio, che noi parliamo di biblioteche digitali partecipate (e queste tre parole tutte insieme evocano per me scenari meravigliosi), ma fuori c’è solo quel 12% di pubblico (quando va bene) che conosce le biblioteche, una percentuale decisamente più bassa che conosce le biblioteche digitali, e nessuno che immagina cosa sia una biblioteca digitale partecipata.

Durante il dibattito su questi temi alle Stelline, qualcuno ha proposto un passo indietro: quanto bisogna lavorare perché la comunità dei bibliotecari ritenga attuale questo tema e si costruisca le competenze minime per lavorarci? Perché basta parlare con i nostri colleghi per accorgerci di quanto il dibattito sul digitale (e ancora meno quello sulla partecipazione) sia lontano, addirittura alieno dagli orizzonti lavorativi di moltissimi bibliotecari.

Io propongo di arretrare ancora un po’: c’era alle Stelline chi diceva che forse non se ne sente poi tanto il bisogno, delle biblioteche digitali partecipate, dal momento che oltre il 38% degli italiani non usa Internet (e solo il 64% delle famiglie ha un accesso internet da casa). E aveva ragione. I 22 milioni di italiani che nel 2014 non hanno mai navigato in Internet sono persone che non hanno un indirizzo e-mail, che non possono usufruire di servizi online; in biblioteca parlo con persone che pensano che Internet sia Facebook, che non distinguono un URL da un indirizzo e-mail, che sono convinti che l’account per accedere al Wi-fi sia sufficiente per controllare i movimenti della propria carta di credito. Tutto questo è preoccupante, deve essere preoccupante per noi bibliotecari, tanto quanto l’analfabetismo. Una persona che non accede alla rete oggi è una persona che non può esercitare fino in fondo la propria libertà. Parlando di spazio digitale, Andrea Zanni scrive:

Come accade nelle reti, il valore massimo dell’utenza diventa la moltiplicazione di tutti i suoi gradi di libertà. L’utenza potrà compiere azioni in questo “spazio delle possibilità”: più può compiere azioni, più queste azioni possono interagire fra di loro.

E’ un pensiero meraviglioso, la libertà che si moltiplica con l’interazione fra gli utenti. Ma, tutti i giorni, vediamo tante persone che sono al grado zero di questa libertà.

Sono molti: sono tutti coloro che sono andati a scuola quando Internet non c’era, e che poi non hanno fatto lavori che ne abbiano richiesto la conoscenza, e che anche volendo non saprebbero da che parte cominciare. Ci sono ventenni che di Internet conoscono solo le app preconfezionate, nelle cui risposte standard non c’è spazio per bisogni complessi che richiedono un pensiero attivo e creativo. C’è chi crede di non averne bisogno solo perché non ne ha mai conosciuto le opportunità.

E allora  questo è il passo indietro che dobbiamo fare quando ci interroghiamo sulla partecipazione della comunità attraverso gli strumenti digitali: assicurarci che tutti abbiano accesso a questi strumenti, che tutti abbiano le competenze per utilizzarli. Soprattutto le biblioteche pubbliche, con la stessa (e maggiore) forza con cui per tanto tempo hanno lavorato sulla promozione della lettura, ora devono lavorare sulla promozione delle competenze digitali.

Se non lo fanno le biblioteche, se non lo fanno i bibliotecari, nessun altro lo farà.

E l’incipit del Manifesto UNESCO per le biblioteche pubbliche ci dice in modo cristallino, senza ombra di dubbio, che è nostro compito farlo.

La libertà, il benessere e lo sviluppo della società e degli individui sono valori umani fondamentali. Essi potranno essere raggiunti solo attraverso la capacità di cittadini ben informati di esercitare i loro diritti democratici e di giocare un ruolo attivo nella società. La partecipazione costruttiva e lo sviluppo della democrazia dipendono da un’istruzione soddisfacente, così come da un accesso libero e senza limitazioni alla conoscenza al pensiero, alla cultura e all’informazione.  La biblioteca pubblica, via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l’apprendimento permanente, l’indipendenza nelle decisioni, lo sviluppo culturale dell’individuo e dei gruppi sociali.