In ricordo di G.

sedia giuseppe

Chi ha frequentato la biblioteca negli ultimi anni, ha conosciuto G. Aspettava tutte le mattine, spesso seduto sul gradino di fronte all’entrata, che la biblioteca aprisse; poi entrava, col tempo sempre più zoppicante, con un sacchetto di plastica in mano con dentro poche cose sul fondo. La sua figura altissima e magrissima attraversava i corridoi fino al distributore del caffè, e lì restava tutto il giorno. I primi anni leggeva il giornale, seduto sulla panca di legno; poi le panche furono tolte, e il giornale lo leggeva in piedi. Poi smise di leggere, la barba diventava più lunga, i vestiti più larghi, stava in piedi appoggiato al muro. Negli ultimi tempi non riusciva più a stare in piedi, le scarpe rotte, una piccola coperta trascinata ovunque; arrivava e si sedeva per terra.

Mettemmo lì una sedia, per lui. Si sedeva comodo, le lunghe gambe accavallate, e se ne stava lì calmo, a volte confabulando silenzioso con chissà quale suo demone. Qualcuno gli offriva un caffè o gli prendeva una merendina. Qualcuno, quando lui si allontanava, toglieva la sedia in nome del decoro. Qualcun altro la rimetteva. Qualcuno chiamava la guardia giurata. Qualcuno si indignava per l’assenza dei servizi sociali (che invece c’erano: con discrezione, senza clamore, pur nella sua condizione, G. non è mai stato abbandonato). Qualcuno protestava con i bibliotecari e la direzione. G. restava lì, persona dolce, tenace e mite fino a quando una qualche sua ferita chiedeva di essere difesa, e allora è capitato che allungasse qualcosa che somigliava a un pugno verso chi lo infastidiva, ma forse è successo soltanto una volta.

Con la sua silenziosa, tenace presenza quotidiana, G. ci ha costretto a lungo a interrogarci su cosa volevamo che fosse la nostra biblioteca. Un luogo aperto a tutti, sì: è così bello dirlo, rivendicarlo con  l’orgoglio del bibliotecario militante. Ma quanto è complessa, quanto è difficile davvero questa semplice affermazione, un luogo aperto a tutti, l’abbiamo scoperto quando il dubbio che potesse essere aperto anche a G., e ai tanti come lui, ci sfiorava. Quando cercavamo le ragioni biblioteconomiche per cui G. potesse restare o essere allontanato, e la biblioteconomia che per molti è una scienza esatta non ci diceva niente.

E alla fine G. è rimasto, semplicemente perché fuori era freddo. È rimasto perché  voleva restare.  No, non era degrado. Abbiamo per quanto è stato possibile lasciato che la biblioteca avesse, fra i suoi significati, anche quello di uno spazio caldo e sicuro per tutti, anche per lui. E alla fine ho il dubbio che tutto quell’interrogarci su cosa volevamo che fosse la nostra biblioteca non potesse trovare risposte, se non interrogandoci anche su di noi: su che cosa ci rende tutti così precari, su quanto esili siano le nostre certezze se basta un senzatetto a turbarci.

G. se ne è andato qualche giorno fa. Vorrei salutarlo con gratitudine per tutte le domande che la sua silenziosa presenza ci ha posto, per averci obbligato a cercare delle risposte.

E se arrivano i fascisti?

Chi andrà al Salone del libro di Torino quest’anno potrà anche visitare lo stand e assistere alle presentazioni dei libri di un editore fascista. Uso proprio il termine “fascista”, e non espressioni come “di estrema destra” o “con simpatie fasciste” o altro, perché è proprio così che lo stesso editore si è definito, precisando anche che, a suo avviso, “il vero male è l’antifascismo”.

Lo scrittore Nicola Lagioia, direttore del Salone, sentendosi chiamato a giustificare questa scelta, scrive che in realtà a lui e al comitato editoriale competono le scelte sul programma, dove mai, aggiunge, ci sarebbe stato spazio per l’apologia del fascismo e per l’odio etnico e razziale, a maggior ragione nell’anno in cui ricorre il centenario di Primo Levi; rivendicando fortemente l’antifascismo come valore in cui lui, il comitato editoriale e l’intera città di Torino credono fortemente.

L’assegnazione degli stand, continua Lagioia, segue altre logiche che è opportuno discutere con il Comitato di indirizzo del Salone, di cui fanno parte le associazioni di categoria della filiera del libro, fra cui anche l’Associazione Italiana Biblioteche. Il Comitato di indirizzo dice in sostanza che sì, il fascismo è una brutta cosa, ma fino a che non ci sono condanne della magistratura bisogna rispettare la libertà di pensiero e di espressione di tutti. Qui le dichiarazioni complete.

In breve tempo le prese di posizione di alcuni scrittori e intellettuali italiani si sono fatte sentire: Cristian Raimo si è dimesso da consulente del Salone, il collettivo Wu Ming ha annunciato che non parteciperà in nessuna forma, anche se la sua presenza era prevista; anche Carlo Ginzburg ha annullato la sua partecipazione, come gesto politico di solidarietà a Cristian Raimo. Il fumettista Zerocalcare, ospite del Salone per tre giorni, dichiara che non gli è possibile condividere alcuno spazio “con chi ha accoltellato i miei fratelli”, e annulla tutto. Leggo ora che una simile scelta è stata fatta anche da Salvatore Settis e Tomaso Montanari; forse altre ne arriveranno.

Con la stessa intransigenza, Michela Murgia, seguita da Helena Janeczec, Chiara Valerio e molte e molti altri, dichiara invece che parteciperà al Salone proprio “per rappresentare i valori della democrazia, dell’umanità e della convivenza offesi dal fascismo e dal nazismo”.

È molto bello leggere le motivazioni di ciascuno, indipendentemente dalla scelta sulla propria partecipazione al Salone del Libro. È bello perché si esprimono posizioni articolate e motivazioni anche complesse, che solo l’hashtag #IoVadoATorino e il suo antagonista #iononvadoatorino semplificano in modo forzato (ma è questo il mestiere degli hashtag).

Non è importante quindi fare il tifo per chi va o per chi non va al Salone o stabilire cosa sia più giusto, anche perché tutti esprimono comunque un netto dissenso.

Quello che invece mi sembra importante è che, con l’assenso di un comitato di indirizzo, che in nome della libertà di pensiero e di espressione considera legittima la presenza di un editore dichiaratamente fascista alla più grande manifestazione sul libro in Italia, si stia legittimando, anzi normalizzando, ciò che normale non può essere.

Se ne scrivo è perché non mi pare che ci sia attenzione a questo tema nel mondo bibliotecario. La posizione dell’AIB, pur espressa come parte di un organismo composito come il comitato di indirizzo del Salone, non mi pare sia stata finora commentata o discussa dalla comunità dei bibliotecari.

Perché, se i fascisti sono ammessi al Salone, cosa faremo quando dovremo ammetterli anche nelle biblioteche? Se anche l’AIB accetta che ciò si possa fare in nome della libertà di pensiero e di espressione, allora cosa succederà quando razzisti, negazionisti, violenti e portatori di odio, nonché esponenti di un’ ideologia che è reato professare, vorranno esprimersi anche nelle nostre biblioteche?

Arriverà il momento in cui non sarà più possibile appellarsi senza alcun distinguo al Manifesto Unesco delle Biblioteche Pubbliche; sarà il momento in cui “rendere prontamente disponibile ogni genere di conoscenza e informazione” potrà significare scegliere di rendere prontamente disponibile l’odio razziale, la violenza, l’intolleranza.

“Qua ogni settimana spostiamo un po’ l’asticella del baratro”, scrive Zerocalcare. Sta arrivando il momento in cui anche noi bibliotecari saremo chiamati a scegliere chiaramente dove fissare l’asticella.

Una declinazione di “Civil Hacking”

Il 22 novembre 2018, al 60° Congresso nazionale dell’Associazione Italiana Biblioteche, sono stata invitata a intervenire sul tema della biblioteca pubblica come “officina” per la produzione collaborativa di contenuti e servizi.

Qui il video dell’intervento.

Sono molto grata a Erika Marconato, amica delle biblioteche e instancabile civil hacker, che propone in un suo post un’attenta analisi dell’ intervento, trovando nell’esperienza della mia biblioteca e nelle mie parole un senso e dei significati che io stessa non immaginavo così potenti, e indicando in questo un “metodo” per le Pubbliche Amministrazioni che vogliono diventare “piattaforme abilitanti” per la reale partecipazione dei cittadini.

Erika cura insieme a Matteo Brunati il progetto #CivicHackingIT, che credo riguardi moltissimo le biblioteche, anche quando non se ne parla.

 

Poveri che rivendicano biblioteche

È uscita una bella intervista a Tommaso Paiano, bibliotecario nelle Marche, che parla di  molti temi interessanti, alcuni dei quali neanche toccati, oppure appena sfiorati dal dibattito professionale (e non) sulle biblioteche.

Parla, e molto, dell’aberrazione del precariato in ambito culturale; parla delle biblioteche che sono fatte di relazioni, prima che di libri; che sono motore di emancipazione e riscatto sociale delle persone; e a un certo punto parla di quanto poco importi, alle amministrazioni e – lo sento dire, scrivere per la prima volta – ai cittadini stessi, delle biblioteche. Tutti dicono che le biblioteche sono una buona cosa, ma quanto poco viene dato, e quanto poco viene richiesto, in termini di finalità e di progettualità, alle biblioteche?

Ma c’è un punto che ho riletto più volte, mi ha fatto pensare e mi ha spinta a scrivere questo post:

La vulgata è: siccome l’Italia è un paese di analfabeti funzionali i servizi culturali servono a rimettere dritta la barra, perché sennò l’ignoranza fa diventare la gente delle bestie.  […] Al momento, quindi, la discussione più interessante che c’è è quella che affronta l’analfabetismo funzionale, condotta in sostanza da “benestanti” che si occupano un po’ paternalisticamente dei poveri, ma non ci sono poveri che con il coltello tra i denti rivendicano biblioteche e servizi per cacciarsi fuori dai guai.

La rapidità e i meccanismi sociali per cui stiamo diventando delle bestie sono sotto gli occhi di tutti (coloro che vogliano vedere). E sono piuttosto scoraggiata rispetto a quanto possano incidere le biblioteche italiane per contrastare questa realtà. Intanto, perché sia i servizi delle biblioteche pubbliche, sia l’utilizzo che ne fanno gli utenti, privilegiano l’intrattenimento, più che informazione: il 25/30% circa dei prestiti delle biblioteche pubbliche sono DVD, cioè film; non ho trovato dati precisi, ma a spanne un altro 25-30% riguarda opere di narrativa. Poi, per quanto grandi siano i nostri sforzi, noi comunque arriviamo a chi probabilmente ha già gli strumenti per cavarsela: le persone consapevoli dei propri bisogni informativi, culturali, di svago che già frequentano le biblioteche. Le strategie con cui finora abbiamo cercato di avvicinare nuovi utenti non hanno funzionato più di tanto: la percentuale di popolazione che le frequenta resta invariata nel tempo e presenta oggi preoccupanti segni di diminuzione.

Chi più direttamente si è impegnato sul contrasto all’analfabetismo funzionale difficilmente è riuscito a creare impatto: l’incontro sulle fake news, il corso sugli strumenti per reperire informazioni corrette in rete, il laboratorio di Information Literacy, la mostra bibliografica sul tema d’attualità, sono tutte cose lodevolissime, su cui bisogna continuare a insistere, ma hanno un limite: difficilmente arrivano a chi ne ha bisogno. O almeno, difficilmente arrivano a chi ne ha un bisogno disperato. Perché se la società, la politica, le dinamiche dei social non salvano, ma anzi spingono sempre più nell’ignoranza chi non ha o non vuole usare gli strumenti per formare, esercitare e accrescere il proprio senso critico, se non ce la fa la scuola, sarà difficile che la biblioteca possa essere più incisiva.

Solo su un punto dell’intervista a Paiano non sono d’accordo, per niente:

“non ci sono poveri che con il coltello tra i denti rivendicano biblioteche e servizi per cacciarsi fuori dai guai”.

Non è vero. Non hanno il coltello fra i denti, perché la maggior parte di loro sono persone miti e cercano invisibilità, ma i poveri che rivendicano biblioteche e servizi per cacciarsi fuori dai guai ci sono, io li vedo ogni giorno. Non bisogna neanche andare a cercarli fuori, perché le biblioteche le frequentano. Li chiamiamo “utenti impropri”, oppure “quelli che non fanno niente”. Sono quelli con i quali difficilmente si attivano relazioni, anche se quello del bibliotecario è un lavoro di relazione. Sono quelli che non rientrano nella progettazione dei servizi, perché sono visti come soggetti che non appartengono all’attività della biblioteca. Sono quelli di cui non si rilevano i bisogni, perché per molti dovrebbero stare fuori dalla biblioteca.

Sono quelli che appena arrivano nella nostra città cercano la biblioteca. Perché qui ci sono i computer collegati a internet, c’è una rete wi-fi, certo, ma anche perché in biblioteca c’è una micro-rappresentazione della società che è più decifrabile, protettiva e rassicurante di quello che c’è fuori.  La biblioteca è lo spazio pubblico in cui una persona che non ha niente, se non il minimo per soddisfare i bisogni primari, può cominciare a costruire una rete. Di relazioni, di conoscenze, di emancipazione, di sicurezze, di senso.

Questi sono i poveri che chiedono, tutti i giorni, biblioteche e servizi per cacciarsi (o restare) fuori dai guai. Cominciare a considerarli utenti è il primo passo per pensare a loro come destinatari dei servizi della biblioteca ed esplorare i nuovi bisogni cui questi servizi dovranno saper rispondere.

 

 

 

 

 

 

 

Ispirazioni

Qualche giorno fa al cinema ho visto Ex Libris: New York Public Library, il documentario di Frederick Wiseman sul sistema bibliotecario della città di New York. Pensavo di uscirne frustrata, e invece passano i giorni, più ci penso, e più mi sento ispirata.

Il robot si muove dritto sul tavolo, ma non si ferma. Arriva quasi all’orlo. Il bambino davanti al computer non sa cosa fare, sta fermo, gli altri bambini guardano e si chiedono se si fermerà prima di schiantarsi per terra. Interviene un ragazzo più grande, ferma con la mano il robot e dice ai ragazzini: “Ricordatevi, a ogni azione corrisponde un pezzo di codice. Se non si ferma, significa che manca il blocco di codice che gli dice di fermarsi. Quindi aggiungete il codice e riprovate. Io passo dopo perché mi chiamano di là”. Immediatamente i ragazzini si rimettono al lavoro, la telecamera si sofferma su altro, sui monitor i blocchi di Scratch, e poi cavi, piccoli transistor, altri oggetti elettronici; infine torna da loro, il robot stavolta si ferma, e i bambini tutti contenti, ci sono riusciti!

Ancora con bambini. Ci sono bibliotecarie e volontari che li aiutano a fare i compiti di matematica. Una donna, sorridente ma ferma, dice al bambino: “Va bene, leggi pure quel bel libro, ma poi ricordati che devi finire l’esercizio”. Il bambino immerge la testa nel libro, e lei si volta ad aiutare una ragazzina sull’altro lato del tavolo. I genitori non sempre riescono a seguire i propri figli nello studio: sono al lavoro, oppure sono di recente immigrazione e non conoscono la lingua, e poi si aggiunge il problema che la didattica della matematica è cambiata radicalmente negli ultimi anni, per cui i genitori non possono ricorrere neanche ai loro ricordi di studenti, se hanno studiato, per aiutare i figli. E allora la biblioteca fa due cose: decide che da qui a un anno le raccolte di matematica (strumenti didattici, kit per insegnanti, libri di esercizi, supporti per lo studio) saranno prioritarie e quindi buona parte del budget degli acquisti sarà dedicato ai testi per l’apprendimento della matematica; e che il “doposcuola” in biblioteca continuerà, ma cominceranno anche incontri per genitori, che impareranno ad usare gli strumenti didattici per la matematica per poter essere in grado di aiutare i figli nello studio. Genitori e figli studiano insieme, così è più facile per tutti.

In un altro spazio della biblioteca, in un altro momento, un gruppo di uomini e donne afroamericani discutono della loro condizione di minoranza. Sono incontenibili la rabbia e la frustrazione di una donna: “Quello che più non riesco ad accettare”, esclama, “è che c’è un libro, e un libro serio, e di un grande editore, McGraw Hill, che definisce ‘lavoratori’ gli schiavi! Dice che vennero negli Stati Uniti come lavoratori! Come lavoratori!”. La risposta del bibliotecario: “Voi qui avete una forza: la vostra biblioteca. Qui ci sono i libri che dicono cosa è successo davvero, noi qui possiamo studiare la nostra storia, trovare i documenti che provano cosa è stata la schiavitù, possiamo provare al grande editore che quello che ha scritto è sbagliato.” Non dice che in biblioteca non si fa censura, non dice che la biblioteca è neutrale ed equidistante da tutte le posizioni, che il pluralismo della biblioteca si esercita dando rappresentanza a tutte le voci; non dice che non spetta alla biblioteca decidere cosa è vero e cosa è falso; non cita i codici deontologici e i manifesti, di fronte a una domanda che grida giustizia così forte, e che esige una risposta altrettanto forte. Perché è comodo proclamare la neutralità, se si è nati nella parte ricca e bianca del mondo, se si è vissuti a favore di tutte le opportunità, dove si può persino scegliere il punto in cui si posiziona una neutralità definita a propria immagine e somiglianza.

Da un’altra parte, c’è chi si mette in fila per prendere in prestito un hotspot per avere connettività internet a casa propria. Si prestano per un anno, sei mesi. Poco prima si vedeva una riunione del direttore con lo staff, in cui si analizzavano alcuni dati: un cittadino su tre non ha accesso alla rete. L’amministrazione della città di New York ha individuato il problema dell’accesso alle tecnologie dei cittadini come prioritario nei programmi da finanziare.  Internet è fondamentale per esercitare i propri diritti di cittadino, per la crescita personale e culturale, per la formazione, l’emancipazione, per accedere alle informazioni, per vivere pienamente nella comunità e nella contemporaneità, per non perdere quelle opportunità di cui la vita di chi non può permettersi una linea Internet in casa è stata povera. A nessuno sembra strano che la biblioteca investa in hotspot da prestare. Che senso hanno i corsi di alfabetizzazione informatica se poi uno non ha la connettività per accedere ai servizi?

Una classe di adolescenti ascolta in silenzio il bibliotecario che presenta la collezione di immagini. È una collezione storica, si è formata in quasi un secolo. Serve “per ispirare“, per stimolare la creatività, l’immaginazione, il talento artistico di chiunque voglia usarle. E per questo sono state ordinate secondo due principi, entrambi a favore di chi usa la collezione: la classificazione per soggetto rappresentato nell’immagine (vediamo il faldone “Animals in action”, con foto antiche e moderne, disegni, stampe di animali che saltano, cani su due zampe, leoni) e la libera disponibilità a scaffale aperto. “Quindi, ragazzi, ora prendete pure la raccolta che preferite e ispiratevi!” è l’invito rivolto agli studenti. E li vediamo subito dopo, da soli o in gruppo, assorti nella visione di immagini di ogni genere, i volti così belli e diversi fra loro, concentrati e silenziosi, il tavolo pieno di carte illustrate di tutte le dimensioni.

Se pensate che il linguaggio dei segni sia una forma di traduzione esclusivamente comunicativa, vi sbagliate. Quello dei segni è un linguaggio caldo, in grado di trasmettere emozioni. Si fa fatica a crederlo, e allora facciamo un gioco: un pezzo della Costituzione degli Stati Uniti, famosissimo, viene letto prima come se fosse un’arringa al popolo, con tono alto e rivendicativo; successivamente come se fosse una supplica, un’istanza a un’entità superiore. Un’attrice interpreta con i segni entrambe le letture. I segni sono i medesimi, eppure, se vedessimo solo quelli senza ascoltare il testo, saremmo certi di assistere alla lettura di due testi completamente diversi. Rincuora capire in modo così immediato che le possibilità espressive di chi non può comunicare con la voce possano essere tanto efficaci; interessante capire che la lingua, qualunque lingua, è molto di più di un segno o una convenzione.

Il direttore dice al suo staff che bisogna chiedersi, quando si scelgono i libri da acquistare, quali saranno quelli che fra dieci anni il pubblico cercherà in biblioteca. Sono tutti d’accordo su questo.

Libri in realtà se ne vedono pochi, e se ne parla ancora meno. Ma si sa che ci sono, che sono milioni, tanto da richiedere un lungo binario automatizzato per il loro smistamento. Si vedono però soprattutto persone, giovani, studiosi, bambini, poveri, anziani, senzatetto, disoccupati, persone perbene, pubblico che assiste ad incontri, performer, artisti, madri, passanti, disabili, celebrità. Sono i bisogni delle persone al centro di ogni minuto di attività della biblioteca: alla postazione di assistenza agli utenti come alle riunioni dello staff del direttore. Si parla di ciò che serve e di come realizzarlo, con quali partner, dove trovare i soldi, si analizzano dati, si costruiscono programmi osservando come si muove, come si esprime, cosa cerca chi viene in biblioteca e chi ne sta fuori. 

E le persone, che sono individui nel momento in cui la biblioteca lavora per l’empowerment di ciascuno,  sono in realtà sempre pensate, vissute, servite in quanto parte di una comunità. Questo è probabilmente il filo di senso che attraversa le decine di sequenze del film, e la vita quotidiana di questa grande biblioteca. La presenza della comunità: il diritto di farne parte, come strumento di crescita, come spazio di identità. Una comunità multiforme, in cui chiunque può trovare un posto, può agire attivamente, può sentirsi a casa. In questo senso, le molte attività che apparentemente non hanno molto a che fare con la vita di una biblioteca (le donne anziane che ballano, il prestito di connettività internet, il concerto di musica da camera, la cena di gala dei ricchissimi donatori), che pure da noi ogni tanto vengono proposte dalle biblioteche come “iniziative” isolate, innovative per il solo fatto che non si sono mai fatte prima, qui assumono un senso importante, quello di far emergere in modo organico ogni nodo, ogni incrocio, ogni filo che compone la grande rete della comunità di riferimento. La ricchissima trama che la compone, e la visione d’insieme. In questo contesto, chi chiede informazioni sull’esistenza degli unicorni è importante quanto il ricco sponsor invitato alla sontuosa cena di finanziamento della biblioteca.

Il film è lungo, molto lungo, e giustamente. Non vuole solo mostrare e raccontare, vuole farci provare, farci vivere qualche ora dentro quella biblioteca. Vuole che diventi un piccolo pezzo della nostra esperienza, almeno per qualche ora. Se siete bibliotecari, prendetevi quelle tre ore e mezza e chiudetevi in un cinema a vedere questo film. Non lasciatevi spaventare dalla lentezza e dalla durata. Anche i convegni sono lunghi, e a volte si impara molto, ma non ne sono mai uscita così ispirata.

Buon Natale, in biblioteca

La biblioteca durante il periodo delle festività di fine d’anno è strana: la quotidianità sembra momentaneamente sospesa. I pochi frequentatori entrano giusto il tempo per prendere cinque, sei film o un paio di libri, salutano e vanno. Poche persone chiacchierano lungo i corridoi; anche i bibliotecari sono pochi, giusto per coprire i turni di servizio al pubblico; nessun viavai di carrelli carichi di libri negli ascensori. Gli espositori con le novità sono semivuoti: molti libri li hanno portati via e non c’è stato il tempo di rimpiazzarli. Gli studenti semplicemente non ci sono, le sale di studio restano vuote. Non è difficile far rispettare il silenzio nelle sale. Anzi, è quasi surreale la quiete che pervade ogni ambiente, persino lo spazio davanti ai distributori di bevande.

I più silenziosi di tutti sono loro. Sembrano fantasmi. Ombre scure, sedute qua e là, isolati gli uni dagli altri. Come  rannicchiati, raccolti dentro se stessi, estranei a quello che hanno intorno. Mi colpisce questo entrando nella sala grande. Il silenzio e queste figure scure, immobili. Coperti fino alle orecchie  da giacconi di diverse taglie più grandi. Non fingono neanche, come nei periodi in cui la vita in biblioteca è più attiva, di leggere, per guadagnarsi il diritto a quel posto. Sono lì, avvolti nei loro baveri alti e nei loro pensieri. Sembrano assenti, non hanno connessioni con niente e nessuno intorno. Ciascuno difeso dalla propria solitudine. Meglio non farsi notare, meglio farsi piccoli, meglio essere niente.

Il mio primo pensiero è che c’è troppa luce, sono come sotto i riflettori. Bisognerebbe spegnerla, accostare le finestre, creare un po’ di penombra perché questa visione sia meno glaciale. Loro cercano di essere meno visibili, ma senza la normale vita della biblioteca intorno si vedono tantissimo, e quelle luci li espongono ancora di più.

L’anno scorso erano nell’atrio dell’ospedale. Ora, dall’ospedale, li buttano fuori. La stazione è fredda, freddissima, con le sue panche di marmo gelido. Nei negozi, nei bar, nei ristoranti non puoi entrare se non hai niente da comprare, da pagare, da consumare.

Fuori le strade sono ricoperte di ghiaccio. Si scivola. Sulle poche panchine  c’è ancora la neve, ormai gelata.  Niente invita a restare all’aperto: è freddo, tutto è sospeso.  Entrare in biblioteca è bellissimo. La nuvola di aria tiepida che accoglie all’entrata invita a restare; il tè caldo dolciastro del distributore automatico non è mai stato così buono.

Ci sono giorni, capitano a tutti, in cui si vorrebbe solo un posto caldo dove dormire e non pensare a niente. In cui la vita è un brutto posto anche se hai una casa sopra la testa e il riscaldamento acceso. In cui stare in casa con i propri pensieri è l’unica cosa che ci può difendere, proteggere. Penso a questo quando vedo quelle ombre nella sala grande della biblioteca, che non hanno neanche un posto dove potersi nascondere. Che volentieri eviterebbero di disturbare il senso del decoro di chi entra frettoloso con gli ultimi regali in borsa.

L’unica cosa attiva e vitale in biblioteca in questi giorni è la cassetta in cui sono raccolti segnalazioni e reclami: “La biblioteca è frequentata da sbandati, dovreste fare selezione all’ingresso” “In biblioteca ci sono troppe persone che non leggono e non studiano. Dovete allontanarle”. “Ricordo con nostalgia gli anni in cui ero studentessa e in biblioteca c’erano solo persone che studiavano. Ora ci sono stranieri che bivaccano ovunque e sporcano. Non mi sento più sicura qui dentro.”

Entrare in biblioteca, restarci il tempo di scegliere il film per la vigilia e per registrare i prestiti, ma prendersi il tempo scrivere una lettera di protesta contro chi, in biblioteca, ha trovato conforto e deciso di fermarsi.  Poi tornare a casa, nella propria calda casa pensando al menu del cenone, fotografare i piatti, metterli su Instagram, su Facebook. Che poi a gennaio assolutamente bisogna iscriversi in palestra per buttare giù i chili delle feste. Pensare di avere fatto il proprio dovere civico: scrivere ufficialmente chiedendo che delle persone, visibilmente in difficoltà, che certamente non hanno alcun altro posto dove andare, vengano cacciate dall’unico posto caldo in cui possono stare per un po’, che poi ci sono tre giorni di festa di fila e dove andranno dio solo lo sa.

Bisogna selezionare all’ingresso, dicono. In che modo non si sa: un’intervista all’entrata. “Scusi lei cosa viene a fare in biblioteca?” Il modello di giacca che indossa. “Scusi, lei vestito così dove pensa di andare?” Il colore della sua pelle. “Perché mica vuole farmi credere che viene qui a leggere, lei che neanche parla l’italiano?”

Bisogna tenerli fuori, dicono. Fuori sulle strade, decorate con le luci natalizie e piene di turisti. Ma anche sulle strade, non possiamo mica far vedere questo spettacolo, tutto questo degrado, i senzatetto seduti per terra al freddo, le loro coperte luride, allora scriviamo subito al giornale e al sindaco e al questore. Non vanno bene dentro, non vanno bene fuori. Stanno male ovunque. Non sono un minimo decorativi.

Nessuno, nessuno mi venga a dire che chi frequenta le biblioteche, chi ha pratica con i libri e la lettura, chi ha accesso alla cultura, solo per questo è una persona che può migliorare se stessa e il mondo. I libri, i film, le conferenze, i gruppi di lettura, gli incontri, i servizi offerti a questo genere di persone servono solo a consolidare le opportunità di cui la vita è stata prodiga, con loro. Privilegi che mai un povero cristo senza casa e senza niente potrà scalfire.

C’è una normalità feroce dentro quell’invito a cacciarli, scritto in un italiano corretto, sul modulo ufficiale dei reclami, firmati con il proprio nome, cognome, indirizzo per ricevere una risposta, dovuta per legge. Anche la malvagità ha le sue pulite procedure burocratiche.

ItWikiCon, un racconto possibile

Questo è un personalissimo resoconto dei tre giorni che ho passato alla ItWikiCon, il raduno dei volontari che contribuiscono ai progetti Wikimedia in lingua italiana, che si è tenuto a Trento dal 17 al 19 novembre 2017.

Tanti wikipediani tutti insieme non li avevo mai visti. Wikipediani, ma non solo. Perché non di sola Wikipedia è fatto il mondo della conoscenza libera e wiki, ma anche di vari progetti, di comunità più piccole di volontari accomunati dal metodo collaborativo e dalla possibilità di libero riuso dei contenuti che producono. Userò quindi l’aggettivo wikipediano non nel senso restrittivo di contributor dell’enciclopedia libera, ma più in generale di attivista per la conoscenza libera sui progetti Wikimedia.

A sottolineare quanto sia forte il legame fra le biblioteche e i progetti Wikimedia, nel loro comune obiettivo di lavorare per la diffusione della conoscenza, e nel loro essere progetti interconnessi (basti pensare ai libri e documenti conservati nelle biblioteche come fonti per le voci di Wikipedia), i partecipanti sono stati invitati ad una visita al laboratorio di digitalizzazione della Biblioteca comunale di Trento. Molti documenti della biblioteca sono sulle piattaforme Wikimedia: ciò è stato possibile anche grazie alle comunità dei vari progetti, che hanno incoraggiato questo lavoro di apertura della biblioteca anche con aiuto molto concreto, prendendosi cura dei testi su Wikisource, delle immagini su Commons, aiutando nei laboratori di scrittura di voci di Wikipedia che la biblioteca ha organizzato.  Alcuni partecipanti hanno potuto vedere i testi rari e antichi sulle cui versioni digitali hanno lavorato; il volontario di servizio civile che opera come Wikipediano in Residenza in biblioteca ha fatto vedere come svolge  il suo  lavoro quotidiano, che consiste nel digitalizzare e caricare su Wikimedia Commons una serie di preziose mappe storiche.

Il programma della conferenza prevedeva diversi interventi dai contenuti più vari: alcuni, pochi, molto tecnici, informatica pura che non era alla mia portata, altri più divulgativi, e tanti momenti di confronto su temi di interesse della comunità.

La prima cosa che ho notato, che non avevo mai visto se non in un altro contesto wiki, è l’uso di Etherpad, cioè la trascrizione collettiva, da parte dei partecipanti, in tempo reale, di quanto veniva detto durante gli incontri: ciò ha permesso a chi non c’era di seguire a distanza e in diretta i contenuti di molti incontri, e a noi tutti di rileggere e integrare anche successivamente gli appunti condivisi. Un metodo, questo, che sarebbe bello si diffondesse: quanti incontri, conferenze, convegni, corsi abbiamo frequentato senza che nulla di scritto restasse per permettere confronti, riflessioni, condivisioni successive? E quanto significato assumerebbe la partecipazione ad una conferenza, se il pubblico si impegnasse a trascriverne e condividere i contenuti? Sto pensando a tutte le energie che si spendono ad inseguire un discorso del relatore cercando di scrivere un tweet, che per forza di cose deve essere breve, deve avere dei tag e degli hashtag se no si perde nella twittosfera: il tweet è lanciato e chi parla è già quattro slides più avanti; oppure a scrivere compulsivamente su un quadernetto o un foglio word le parole che si riescono a trattenere, che poi resteranno chiuse lì o disponibili solo per chi le ha scritte, piene di lacune perché non si può trascrivere tutto: ecco, più Etherpad per tutti, d’ora in avanti.

Apprendo nell’incontro inaugurale che esiste una Friendly Space Policy, un codice di condotta per chi partecipa all’incontro che merita di essere letto, per la precisione e la sensibilità con cui sono indicati tutti i comportamenti da evitare per non mettere in imbarazzo, offendere o infastidire chi partecipa. Da affiggere in tutti i posti pubblici in cui le persone interagiscono fra loro.

Mi ero iscritta alla presentazione del progetto Wikipedia 4 Refugees (che cosa c’entra Wikipedia con i rifugiati? andate a leggere le voci che, dall’italiano, i volontari insieme ai migranti stanno traducendo nelle loro lingue di provenienza, per capirne l’importanza) ma già da subito diserto il mio appuntamento: ho scoperto che c’è in parallelo un meeting dei volontari di Wikisource, progetto che a me sta particolarmente a cuore.

Piccola parentesi personale: Wikisource è stato il mio primo passo dentro il mondo wiki. Sapevo di Wikipedia, come tutti usavo spessissimo l’enciclopedia libera, ma, pur affascinata dal misterioso meccanismo di costruzione della conoscenza attraverso la partecipazione di molti, non ero mai riuscita a superare la mia cronica insicurezza e inesperienza delle cose informatiche. Per molti anni, dunque, me ne sono stata ferma a guardare, pensando alla bellezza di tutto questo, ma anche sentendola lontana dalle mie capacità. “Be bold!”, sii audace, recita un motto caro ai wikipediani. E io, bold, non lo ero. Molto più rassicurante, per me, il motto che si leggeva tempo fa sulla home page di Wikisource: “è sufficiente saper leggere!” Se saper leggere era sufficiente, io superavo di gran lunga i requisiti. E così, fra letture e riletture, ho da poco superato i miei 1000 edit sulla biblioteca digitale libera, e ne vado particolarmente orgogliosa.

Dunque raggiungo il tavolo dei wikisourciani, dove ci si sta confrontando sulle ambiguità del pubblico dominio per la legge italiana rispetto a quella statunitense. Succede infatti che negli USA le opere di un’autrice come Sibilla Aleramo sono già libere dai vincoli del diritto d’autore, e quindi sono già pubblicate su piattaforme libere come Internet Archive, mentre per la legge italiana bisognerà aspettare il 2031, cioè l’anno successivo al settantesimo dopo la morte dell’autrice, per poterli pubblicare. Quindi, in Italia, possiamo solo stare a guardare e non trasformarli in testi riutilizzabili, scaricabili in diversi formati, arricchiti di conoscenza tramite link interni, come avviene solitamente su Wikisource. Tutti i progetti Wikimedia sono assolutamente rispettosi delle leggi sul diritto d’autore, anche quando si tratta di accettarne i suoi paradossi, ma resta sempre il dubbio se, in termini di legge, avere i server di un progetto in uno Stato con una legislazione più ampia possa mettere al riparo da eventuali controversie. Nel dubbio, meglio attenersi alla legge italiana.

Ma al tavolo di Wikisource ci sono anche due bibliotecarie e un bibliotecario digitale, e allora cominciamo a discutere di come si possa rendere più “friendly”, o almeno più solida, per le biblioteche, la procedura per importare testi digitalizzati dentro Wikisource. Perché finora molto si fa grazie alla (generosa, accogliente) comunità di volontari del progetto, che risolvono in breve tempo tutti i problemi tecnici o legati all’inesperienza di chi contribuisce per le prime volte, ma volendo standardizzare le procedure, in modo che le biblioteche possano sommergere senza ostacoli Wikisource di valanghe di testi in pubblico dominio che  conservano, come si può fare? Si analizza quello che non va, si immagina come dovrebbe essere, e il tutto viene riassunto e inviato sotto forma di richiesta agli interlocutori tecnici del progetto, e chissà.

Poi, sempre con i bibliotecari, si parla di dati bibliografici e Wikidata. E si torna alle basi, ancora una volta cercare di definire in modo univoco ciò che univoco non è perché dipende dalle relazioni in cui si trova inserito. Cos’è “I promessi sposi?” un’opera letteraria, certo, ma esistono anche riduzioni, opere teatrali, traduzioni, audiolibri; e, da un altro punto di vista, a quale stesura stiamo pensando, alla ventisettana o alla quarantana? e poi a quale edizione? e come si fa, se su Wikipedia spesso troviamo indicate le citazioni bibliografiche con un codice ISBN, numero che identifica una, e solo quella edizione, e che risponde ad esigenze commerciali e non a un tentativo di classificazione del sapere? E tutto questo dovrebbe essere organizzato per permettere a Wikidata di trasformare la complessità in dati, puri dati. Molti bibliotecari, in tutto il mondo, stanno lavorando con la comunità di Wikidata per disegnare un assetto possibile, ma c’è ancora tanto da fare.

Finisce che passo la mia giornata tutta con il gruppo di Wikisource e ogni tanto controllo sull’Etherpad cosa si sta dicendo dall’altra parte.

Mi propongo di seguire l’incontro su Wikidata di sabato, ma poi sabato tutto di nuovo cambia, perché sono in ritardo, l’incontro è già cominciato e per arrivarci passo da una sala dove ci sono alcuni storici che spiegano ai Wikipediani come vanno scritte le voci di storia: decido di fermarmi. Il relatore sta analizzando e facendo a pezzi una voce di Wikipedia su un argomento storico, facendo emergere alcuni buchi temporali, l’uso di fonti non appropriate, il punto di vista non sempre neutrale, gli interventi che a suo parere restano ad un livello elementare, quasi di luogo comune, sulle pagine di discussione. Il tono sarcastico, piuttosto compiaciuto, dell’esposizione sembra togliere peso alla solidità delle argomentazioni, pure condivisibili. Però, per la natura stessa di Wikipedia, non si possono scrivere le voci enciclopediche sotto forma di saggio storico, come sembrerebbe auspicare il relatore, che ci informa anche sulle nuove tendenze della storiografia contemporanea. Basterebbe che chi di storia ne sa, come lui, oltre a pubblicare i propri articoli, entrasse dentro Wikipedia e correggesse, lui che ha fonti e conoscenze storiche a portata di mano, in mezz’ora ciò che ci ha messo un’ora a segnalare come sbagliato. Molti, che provengono dall’accademia, sanno come dovrebbe essere fatta Wikipedia; se solo volessero contribuire a farla, oltre che/invece di insegnare come bisognerebbe farla, il loro apporto sarebbe prezioso.

Nell’altra sala, poi, comincia una bella discussione fra due comunità diverse ma intrecciate, quella dei wikipediani e quella dei soci Wikimedia Italia. Non tutti i soci Wikimedia sono wikipediani, e non tutti i wikipediani ovviamente sono soci. Dipende dai punti di vista: ci si sente legati, oppure estranei l’un l’altro, oppure contrapposti. Se nella sua eterogeneità la comunità dei wikipediani appare compatta, o almeno accomunata da punti di vista e visioni simili, è più difficile trovare analoga fluidità nella comunità dei soci Wikimedia. Pesano forse le recenti discussioni sulla riorganizzazione interna dell’associazione e certamente l’assenza, nella sede del dibattito, di esponenti dell’attuale direttivo. Nonostante questo il confronto mi sembra dei più fertili: se ne esce con una lista di proposte tutt’altro che banali, linee guida sulle quali lavorare insieme per i prossimi mesi e alla fine mi è parso, più che un semplice incontro, un’azione verso l’incontrarsi delle due comunità.

Esistono poi progetti proprio piccoli, che tenacemente qualcuno sta portando avanti. Uno di questi è Vikidia, una piccola Wikipedia per bambini, che due docenti eccezionali per capacità di visione, ma anche per grande senso pratico, stanno usando in Trentino come strumento didattico. I ragazzi delle scuole elementari e medie studiano scrivendo voci di Vikidia sugli argomenti di studio: imparano a cercare le fonti, selezionare gli argomenti, scrivere e condividere. E forse saranno i futuri wikipediani; di certo stanno apprendendo un metodo di studio che abitua alla lettura critica delle fonti e alla partecipazione attiva alla produzione di conoscenza.

Fra un appuntamento e l’altro ci si incontra e conosce con altri wikipediani: prima si guarda il badge con il nome wiki, poi il viso della persona che lo indossa e quindi “Ah, sei tu!”; si scambiano opinioni, si riprendono discorsi abbandonati in mailing list e si mettono insieme progetti al volo durante le pause per il pranzo o il caffè: ho assistito, e partecipato direttamente, fra una pietanza e l’altra, a traffici di libri (personali o presi in prestito da biblioteche lontane) che finiranno digitalizzati su Wikisource; un minuto fuori al sole che scalda nonostante la stagione può servire a porre le basi per un progetto di contrasto al gender gap su Wikipedia;  nel frattempo il canale Telegram ItWikiCon si popola di proposte per la cena, chi c’è chi non c’è, quanti siamo, avete prenotato, non c’è posto, dove siete?

Wikisource assorbe ancora la mia ultima giornata: seguo la presentazione e subito dopo il workshop pratico, con un occhio sempre all’Etherpad perché dì là si discute di uno dei capisaldi delle voci biografiche su Wikipedia: il “template Bio”, la formula predefinita con cui devono essere inserite le informazioni principali sulle persone scrivendone la voce per Wikipedia. Vale la pena leggere l’Etherpad di questo incontro, uno dei più vivaci e partecipati. Perché parametri come la nazionalità di un personaggio possono essere molto controversi. Perché nominare al femminile le professioni diventa un’esigenza sempre più sentita. C’è chi arriva anche a chiedersi se ha senso standardizzare le voci secondo un modello predefinito, ma pare che questo template abbia risolto molti problemi legati alle interpretazioni e punti di vista, e la discussione su questo cade subito.

C’è stato molto, molto di più che qui non riesco a raccontare: mi piacerebbe almeno nominare i tanti che con i loro interventi, con la loro capacità organizzativa, con la loro presenza mi hanno dato la sensazione di essere nel posto giusto al momento giusto; sono tutti qui. Mi spiace per i tanti incontri che non sono riuscita a seguire, e quindi neanche a citare in questo post: chissà quanto avrei ancora potuto imparare.

Vorrei infine ricordare la bellezza degli spazi di Palazzo delle Albere, i cui affreschi invitavano a soffermarsi nelle sale, e hanno offerto un contesto di pace e bellezza nel quale incontrarsi e dialogare.

Come ho imparato che cos’è il parelio

Qualche tempo fa la biblioteca pubblicò un post sulla propria pagina Facebook per segnalare la digitalizzazione di un’opera molto rara, che descrive un “prodigio” avvenuto nel 1536: la comparsa di tre soli nel cielo.
Indubbio è il fascino dei libri antichi; ma questo documento, proprio per il tema trattato, mi aveva particolarmente incuriosita, e così sono andata a leggere il racconto di questo straordinario evento, premonitore, secondo l’autore del testo, delle più spaventose sciagure:

questi accidentali soli che circondano il nostro sol natural evidentissAnonimo - El gran prodigio di tre soli, Zanelli, Roma, 1536imamente dimostrano la eversione de cita e lochi, il revolgimento de stati e Signorie, le grandi e sanguinose battaglie, la noiosa e grave destruzione de reami, gli ivvisitati e perigliosi terremoti, la plurazion di pestilenzia crudele: lo importabile carico de la Carestia de tutte le cose: le subitanee e improvise morte e finalmente le regedi e aspri castigamenti, le molte angoscie e tribulazione che generalmente patirà la sconsolata e afflitta cristianità di che sarà primiera cagione la Luterana setta e pagani la qual con la lascivia e falsa sua legge ingegnorassi de sottomettere il natural sole cioè il popolo cristiano observator della evangelica legge.

La cosa sembrava finita lì, per me, con la lettura di questo curioso testo.

Qualche tempo dopo vedo comparire proprio questo documento su Wikisource, che è una biblioteca digitale di testi in pubblico dominio o con licenza libera, basata sul principio collaborativo di tutti i progetti wiki (per es. Wikipedia). Era successo che un contributor di Wikisource aveva intercettato, forse attraverso il post di Facebook, quest’opera e aveva deciso non solo di renderla disponibile, ma anche di proporne una trascrizione secondo il metodo del filologo digitale, creando dunque due versioni dell’opera, una diplomatica e una critica; cosa che ha permesso a me, che filologa non sono mai stata, di leggerne agevolmente il testo e, tra l’altro, di poterlo riproporre in questo post.

La storia potrebbe finire qui, e basterebbe questo per dire quanta nuova e imprevedibile vita si può donare ai documenti antichi delle biblioteche, digitalizzandoli e mettendoli a disposizione liberamente per il riuso, non solo da parte degli studiosi o addetti ai lavori.

Ma vorrei proseguire con il racconto. Dunque avevo letto con curiosità questo testo ed ero convinta che stesse raccontando di una qualche superstizione, o di una suggestione più o meno mistica che tornava utile, a quell’epoca, esporre in chiave apocalittica per contrastare la diffusione della dottrina luterana.

Oltre che di filologia, io sono poco esperta di moltissime altre cose, fra cui certi fenomeni atmosferici. Proprio all’inizio del testo trascritto, durante la lettura, mi sono accorta di un link alle parole “de tre soli”.

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Ho cliccato per curiosità sul link e mi sono ritrovata alla voce di Wikipedia Parelio, scoprendo così che più che a un prodigio, la presenza di tre soli in cielo era dovuta a un fenomeno atmosferico tanto affascinante quanto comune: non un miracolo, dunque, ma un’incantevole manifestazione della natura.

È, tutto sommato, una piccola storia e il fatto di aver conosciuto un nuovo fenomeno atmosferico non cambierà certo le sorti del mondo, però mi sembra un piccolo caso emblematico di che cosa significa, per le biblioteche, “liberare”, cioè digitalizzare e soprattutto pubblicare online senza limiti di riuso, i documenti che conservano.

Significa, prima di tutto, rendere generativa la conoscenza rinchiusa nei libri. Un libro di quasi cinque secoli fa può insegnarmi un fenomeno atmosferico che, ai tempi in cui quel il libro fu scritto, non era conosciuto. Quante conoscenze non direttamente espresse in un testo possiamo trovare fra le sue righe? È bastato liberare un documento e accettare che altri, sconosciuti, decidessero di riutilizzarlo per avere non solo una versione arricchita di quel testo, ma anche nuove connessioni fra le conoscenze, quella espressa da un testo della prima metà del XVI secolo e il sapere scientifico di cui possiamo disporre oggi.

Noi bibliotecari abbiamo sempre lavorato avendo (o credendo di avere) ben chiaro il pubblico a cui si rivolgeva il nostro lavoro. Cercando e fornendo risposte a domande definite, e organizzando la conoscenza rinchiusa nei nostri libri perché potesse rispondere a tipologie di utenti altrettanto ben definite. Ma quanto sapere ci può raggiungere per caso, mentre non lo stiamo cercando intenzionalmente? La domanda di conoscenza non è sempre esplicita, e non è sempre formulata sotto forma di domanda. Può manifestarsi attraverso strani, intricati percorsi, che dimostrano soltanto quanto imprevedibile e inespresso possa essere il bisogno di conoscere delle persone.

Infine, dobbiamo fidarci dell’uso che verrà fatto dei documenti liberati dalle biblioteche. Della porta verso altre informazioni che si può aprire semplicemente aggiungendo un link a un testo; del ripristino di tre righe che completano una (brutta, ideologicamente aberrante) canzone, censurate dall’anonimo possessore di un libro; di un’improvvisa idea imprenditoriale ispirata ad alcune mappe storiche, che viene dall’altra parte del mondo (dove sta, chi è la nostra utenza?).

Post-conclusione: una settimana dopo avere imparato che cos’è il parelio, e con scarse speranze avevo espresso il desiderio di vederne uno, prima o poi, nella vita, ecco che mi si è manifestato un tardo pomeriggio, mentre guidavo in autostrada. Per lungo tempo, non avendo visto il sole vero, avevo pensato che fosse l’altro, il sole, ricoperto da un lieve arcobaleno. Poi ho visto il vero sole e…

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Libri da buttare

Nei primi tre mesi del 2017 i casi di morbillo in Italia sono stati 1439. Nello stesso periodo dell’anno, nel 2016, sono stati 237. Nel 2015, sempre da gennaio a marzo, 43. Qui tutti i dati.

Da cosa dipende l’aumento di questi numeri? Aumenta il numero di genitori che non vaccinano i propri figli, per cui, anche a causa dell’ indebolimento della cosiddetta immunità di gregge, la copertura vaccinale è insufficiente per evitare il contagio. Quindi, oltre ai bambini non vaccinati per scelta ci sono persone che non possono vaccinarsi, o non sufficientemente immuni alla malattia per vari motivi, che si ammalano. C’è da dire che il morbillo non è un’ innocua indisposizione che ricopre per qualche giorno chi la contrae di macchie rosse: è una malattia potenzialmente mortale, che può avere complicanze anche gravissime: per esempio polmonite, encefalite, insufficienza respiratoria, convulsioni. Basti pensare che il 39% degli ammalati di quest’anno è stato ricoverato in ospedale, il 15% arrivato tramite pronto soccorso.

Se c’è chi non ritiene il morbillo una malattia così grave, per cui arriva a non vaccinare i propri figli, offrendo così anche ad altri (solo per fare un esempio: a chi è immunodepresso a causa di una chemioterapia)  la possibilità di essere contagiati, diverso è il caso del tumore. Il tumore è la malattia che temiamo: conosciamo tutti qualcuno che ne è stato colpito, sappiamo che dolore e paura non sono risparmiati neanche a chi arriva a una guarigione. Per questo colpisce ancora di più il seguito che ha un certo signore, che si chiama Ryke Geerd Hamer, il quale sostiene, fra molte altre pericolosissime sciocchezze, che il tumore sia frutto di un conflitto psichico, e dunque basta curare il conflitto per curare il tumore; che le metastasi sarebbero un’invenzione della medicina e che in nessun caso bisogna somministrare morfina per controllare il dolore nelle persone ammalate.

Recitiamo come un mantra, noi bibliotecari, il ruolo fondamentale delle biblioteche per sviluppare cittadini informati, consapevoli, in grado di orientarsi e di riconoscere il falso dal vero, le opinioni dai fatti, le false credenze dalla scienza. Abbiamo condiviso in molti, in questi giorni, sulle pagine social delle nostre biblioteche, la chiara infografica realizzata dall’IFLA su come riconoscere le false notizie, che si conclude con l’invito, in caso di dubbi, a rivolgersi ai bibliotecari, che sono gli esperti in questo caso.

E allora ho provato a fare l’utente. Ho aperto fiduciosa la pagina del catalogo del mio sistema bibliotecario e ho inserito nella stringa di ricerca il termine “vaccinazioni”. Risultano presenti 153 monografie. Sfortunatamente il soggetto di tutte queste opere, l’ unico elemento che permetterebbe di capire l’approccio all’argomento trattato (purtroppo l’OPAC in questione non contiene abstract),  nella maggior parte dei casi non dice più di quell’unica parola: “vaccinazioni”. Dunque bisogna affidarsi al titolo, spesso ambiguo, o all’editore, in qualche caso noto, per capire se si tratta di un libro che sostiene che i vaccini sono propaganda delle cause farmaceutiche e sono il male assoluto per i nostri bambini, oppure se ci troviamo davanti a serie argomentazioni medico-scientifiche. Dal momento che con il solo catalogo non se ne viene fuori, allora con paziente copiaincolla inserisco ciascun titolo in Amazon, IBS o altri siti commerciali, che contengono abstract e recensioni dei testi che ho trovato, e lì tutto diventa più chiaro. (E questo meriterebbe un discorso a parte su quanto a volte siano teneri i nostri tentativi di fare information literacy spiegando agli utenti come funzionano i nostri ottusi cataloghi).

Scopro, davvero con sorpresa e sgomento, che nel mio sistema bibliotecario ci sono almeno 12 titoli usciti negli ultimi 5 anni (e ovviamente svariate copie per ciascun titolo) che diffondono superstizioni e opinioni prive del minimo fondamento scientifico contro le vaccinazioni. Le teorie del signor Hamer invece, possono contare su una documentazione di circa 7 titoli, anche questi presenti in più copie nelle diverse biblioteche. La situazione non migliora consultando i cataloghi di altri sistemi bibliotecari: nelle nostre biblioteche acquistiamo, cataloghiamo, prestiamo e promuoviamo libri che diffondono disinformazione, teorie false e pericolose per il singolo e per la società.

E allora, è arrivato il momento di buttarli via, questi libri. Tenerli sugli scaffali delle nostre biblioteche è un atto di irresponsabilità: vuol dire fornire supporti credibili (in fondo sono passati dal vaglio dei bibliotecari, esperti di corretta informazione!) a opinioni sbagliate e dannose.

Chi pensa che la scelta dei documenti da proporre al pubblico in biblioteca debba essere fondata su un’equidistanza geometrica da tutte le posizioni, da tutte le opinioni, deve sapere che il compito della biblioteca è quello di documentare: fornire conoscenze solide su cui operare le proprie scelte, su cui fondare le proprie convinzioni. Documentare non è alimentare idee e credenze prive di fondamento che hanno conseguenze pericolose sulla vita delle persone.

Chi grida alla censura, sappia che buttando via questi libri non stiamo privando il mondo di queste fondamentali teorie, perché continueranno a sopravvivere, e pure in abbondanza, dove già trovano ampio spazio e diffusione: in decine di pagine Facebook e in altrettanti siti web, anche indicizzati da Google fra i primi posti. Chiunque è liberissimo di disinformarsi in rete, ma se viene in biblioteca deve sapere che qui, e soprattutto su temi delicati come la salute, troverà informazione di qualità, conoscenze supportate da fonti serie, sia nei libri che in rete; mentre la magia, le credenze popolari, la fantascienza, le superstizioni le potrà trovare al massimo nelle rispettive classi Dewey.

La pasta madre della conoscenza

Sono nata e ho vissuto la mia infanzia ed adolescenza in Salento, quando il Salento non sapeva ancora di essere il Salento. Ho fatto in tempo, quindi, a vivere un contesto sociale che vedeva convivere e intrecciarsi modernità e tradizione, in cui molte dinamiche sociali erano immutate, forse da secoli.

Una di queste, forse oggi ancora viva in alcuni paesi, era la pratica di fare il pane in casa per poi portarlo a cuocere al forno del paese che, oltre a produrre il pane per la vendita, permetteva anche ai privati di cuocere il proprio. Dal momento che il pane salentino ha una conservazione molto lunga, si faceva il pane circa una volta al mese; se ne produceva parecchio per coprire il fabbisogno mensile, e insieme al pane si facevano anche altre varietà di sfornati, fra cui le friselle, oggi apprezzato street food turistico servito con condimenti che fanno inorridire diverse generazioni di miei avi.

Ingrediente indispensabile per fare il pane è il lievito, che allora nessuno chiamava “pasta madre”, ma era semplicemente “llavàtu“. Nessuno era proprietario del lievito: quando una famiglia doveva fare il pane, andava a cercarlo dalla vicina, e dopo tre o quattro porte, in qualche casa si trovava una pagnotta lievitata, che in modo del tutto naturale veniva ceduta alla famiglia panificatrice. Poi, quando il pane veniva impastato e fatte le forme da cuocere, si teneva da parte un pezzettino di quella pasta cruda, si faceva una croce sopra e si lasciava a lievitare per qualche giorno. Si formava così un nuovo llavàtu. Qualcuno del vicinato, qualche giorno dopo, avrebbe bussato a quella porta per prendere il prezioso lievito per il proprio pane, e così avrebbe continuato quella lunga catena fatta di un solo lievito itinerante, che avrebbe fatto lievitare decine e decine di forme di pane, mai uguali da famiglia a famiglia,  per tutto il quartiere.

Credo che nessuno di loro avrebbe saputo dire chi, per la prima volta, aveva creato quella pasta madre. Credo anche che nessuno di loro avrebbe saputo farla per la prima volta. Semplicemente, u llavàtu c’era, bastava chiedere in giro.

L’ingrediente primario, il più prezioso, per produrre il cibo più importante dell’uomo, il pane,  che anche simbolicamente è sinonimo e archetipo del cibo stesso, non era di proprietà di nessuno. C’era, era di tutti, ciascuno se ne prendeva cura, era una forma atavica di condivisione; nessuno lo “perdeva” mai per incuria, perché smetteva di fare il pane, perché decideva di tenerlo per sé: il lievito restava in vita, si rigenerava, perché tutti lo usavano e riusavano, perché era un bene di primaria importanza per tutti.

Si potevano produrre pane, panini, focacce, friselle, pizze e ogni altra “opera derivata”: nessuno aveva timore di donarlo, perché ce n’era sempre in giro un originale integro.

Per contribuire con la propria documentazione alle celebrazioni per il centenario della morte di Cesare Battisti, la biblioteca decide di digitalizzare le opere che il politico e geografo pubblicò in vita. Decide anche che le digitalizzazioni devono essere disponibili per il pubblico nel modo più ampio possibile, per questo usa piattaforme libere: Internet Archive e Wikisource per i testi e Wikimedia Commons per le immagini. Sono lì, chiunque può trovarle e prenderle per farne qualunque cosa.

Fino a che erano di carta, questi testi interessavano studiosi o studenti di storia e persone interessate alla figura di Cesare Battisti. Che potevano decidere di leggerli, uno per volta, fotocopiarne delle parti, consultare le immagini, citarli come fonte. Con la digitalizzazione questi testi sono stati smembrati: abbiamo il testo integro in formato immagine; grazie al lavoro della comunità di Wikisource abbiamo il formato testo modificabile a fronte (che chiunque può contribuire a migliorare); abbiamo diversi formati dei testi da leggere su diversi dispositivi (ePub, Mobi, Pdf, TXT, RTF) abbiamo le immagini e le carte geografiche fotografate una per una, come singoli oggetti digitali. Sono ancora di grande interesse per gli studiosi, ma chiunque ci può giocare come vuole, può usarli per creare nuovi prodotti dell’intelligenza e della creatività umana, può produrre nuovi strumenti e nuove fonti di conoscenza. Non più e non solo gli storici e gli studiosi, dunque, possono beneficiare di questo lavoro, ma chiunque.

Per esempio, succede che qualcuno , che non è uno storico e non è direttamente interessato alla figura di Cesare Battisti per lavoro o per interesse personale, trovi nell’opera digitalizzata di Battisti una mappa della città di Trento di un secolo fa.

Ispirato da una rappresentazione della propria città che a tratti è rimasta uguale, a tratti è radicalmente diversa a distanza di un secolo, decide di sovrapporre alla mappa antica, una odierna della città di Trento, realizzata in modo aperto e collaborativo nel progetto OpenStreetMap, per creare nuove visualizzazioni che evidenzino tutto quello che è cambiato, e tutto quello che è rimasto uguale, nella città di Trento a distanza di un secolo. trento1915_mask

Tutto il percorso, e i risultati di questo lavoro, che mi sembra bellissimo, sono ben raccontati e descritti qui.

Un’opera scritta un secolo fa che, solo per il fatto di essere ora disponibile liberamente in formato digitale, rigenera se stessa e genera nuova conoscenza, mi sembra che possa rappresentare un efficace invito per le biblioteche a non temere di “liberare” i testi in pubblico dominio che conservano: questi, e le loro digitalizzazioni, resteranno integri e correranno solo due rischi che vale la pena di correre: una maggiore diffusione di questi documenti e la possibilità di vedere nascere nuove opere di ingegno e creatività a partire da quelle liberate.

Il bello del pubblico dominio è proprio questo: custodite nelle biblioteche fisiche le opere di carta, le versioni digitali sono sono lì a disposizione di tutti, non bisogna chiedere il permesso a nessuno per digitalizzarle e diffonderle; sono beni che solo con il libero riuso diventano generativi, proprio come quel pezzo di lievito curato e condiviso da tutti, che ciascuno poteva riutilizzare per creare il pane delle forme e ricette più varie.

Anche la conoscenza ha senso se mantenuta viva, se qualcuno se ne prende cura non tenendola chiusa nell’armadio per distribuirla a richiesta, magari dietro compilazione di uno o più moduli, ma lasciando che, come un eterno lievito, possa circolare e venga rigenerata dal libero riuso di chiunque.

Se ha funzionato con il pane, bene di prima necessità, e per secoli, perché allora non dovrebbe funzionare con la conoscenza?

Il decoro è un lusso

Decoro: 1. Complesso di valori e atteggiamenti ritenuti confacenti a una vita dignitosa, riservata, corretta; 2. Decorazione, che serve da ornamento; in partic. piastrella con decorazioni.

“Decoro” è il termine più spesso invocato da chi, frequentatore di biblioteche pubbliche, si sente disturbato dalla presenza di senzatetto o persone che non svolgono una particolare occupazione intellettuale, soprattutto se stranieri.

C’è chi, spesso animato da tutte le virtù cristiane, è sinceramente addolorato per le disgrazie altrui, ed è convinto che qualcuno (di norma qualcun altro) dovrebbe fare qualcosa. Il suo dolore resta inascoltato, un’invocazione sempre aperta: bisogna fare qualcosa.

C’è chi, consapevole di quanto certe persone siano sfortunate, comprende il loro disagio, ma ritiene sia ragionevole che lo esprimano altrove, in fantomatici luoghi di raccolta di persone disagiate: sono luoghi in cui è possibile esprimere senza timore il proprio sfortunato status, in cui realizzare pienamente la propria indecorosa marginalità.

C’è poi chi rivendica con orgoglio, come fosse un altissimo pensiero conquistato dopo anni di studi e fatiche, di non essere buonista, e, chiarisce: non che sia razzista, ma negri e barboni non devono stare in biblioteca e devono,  rispettivamente, tornare al proprio paese e andare a lavorare.

Infine ci sono quelli che si indignano. Che dichiarano su Facebook la propria indignazione e contano i like e i commenti di altri indignati e biasimano chi non si indigna.

Ma cosa hanno in comune, cosa invocano tutti? Il decoro. Non è decoroso che un senzatetto stia in biblioteca. In biblioteca c’è tutto il sapere, ci sono i libri, ci sono studenti e studiosi: tutti, questi, concetti e persone decorosissime.

Mi piacerebbe sapere come e quando si sono formati questa strana convinzione. Le biblioteche pubbliche non sono luoghi decorosi. Non lo sono se spalancano le porte davvero a tutti coloro che vogliono entrare, conoscere, imparare, condividere, trovare una risposta, cercare una comunità in cui riconoscere un pezzo di sé.

Le biblioteche pubbliche non sono decorose perché la vita, certe volte, non lo è. La vita ti può presentare situazioni orribili, ed è solo un caso se ti ritrovi con un tetto sopra la testa, un amico o una rete familiare che ti aiuti. E a volte neanche questo basta a cavarsela.

Che le difficoltà – economiche, sociali, mentali – non siano decorose, può capitare. Ma il decoro non è una scelta: il decoro è un lusso, che non tutti si possono permettere.

Chi in biblioteca cerca un rassicurante specchio della propria fortunata realtà, ha sbagliato posto e, semmai fosse venuto per imparare qualcosa, non imparerà niente. Si impara davvero confrontandosi e mettendosi in discussione, e non cercando conferme fra i propri simili.

Chi crea biblioteche pubbliche in questo senso rassicuranti, chi aspira a riprodurre nella biblioteca pubblica certe dinamiche ed assetti sociali esterni, tanto puliti e decorosi quanto meglio riescono a nascondere le marginalità, così sgradevoli da vedere,  forse deve rivedere la propria missione; forse lavora per un pubblico che non ha bisogno davvero di una biblioteca, anche se la frequenta. Forse ha solo creato uno spazio pieno di libri.

Sempre più si diffonde la concezione, e anche la moda, di biblioteche che dovrebbero somigliare ai Fab Lab, laboratori in cui si impara facendo. Proviamo a pensare alla biblioteca come un laboratorio in cui si impara vivendo, luogo privilegiato di sperimentazione spontanea delle complessità e delle contraddizioni della nostra società, luogo in cui troviamo persone, libri e condizioni umane che ci facciano sempre imparare qualcosa sulle cose importanti della vita, e pazienza se il decoro non è fra questi.

Il catalogo dei libri azzurri, ovvero, il senso e la bellezza dei dati

Knowledge Design: costruire nuovi modelli del sapere,  è il tema di una conferenza che Jeffrey Schnapp ha tenuto il 16 dicembre 2016 all’Università di Trento, alla quale ho potuto assistere. Qui un resoconto molto parziale dell’incontro, con alcune mie riflessioni. Ringrazio Jeffrey Schnapp per avermi fornito alcuni materiali della sua presentazione.

Il modello del processo di ricerca in ambito umanistico è tradizionalmente quello che parte da un lungo lavoro di reperimento e accumulo di dati, dal loro studio e interpretazione, dalla scrittura dei risultati, dal lavoro redazionale sul testo, fino alla sua pubblicazione. Questo percorso, a volte talmente lungo che la ricerca diventa superata nel momento in cui è pubblicata, è oggi messo in crisi dalle opportunità offerte dagli strumenti digitali, che riavvicinano sempre più ambito scientifico e umanistico, e riportano la conoscenza al confluire di competenze, esperienze, linguaggi più diversi e non ad un preciso ambito definito a priori che si sviluppa secondo un processo prevedibile.

Il modello di digital humanities cui guardare oggi è quello del laboratorio: si fa, si elabora, si produce parlando (ed essendo in grado di interpretare) contemporaneamente linguaggi diversi. Più che di uno staff di ricerca che rappresenta tutte le competenze necessarie, si parla qui di un metodo, che vede nell’annullamento dei confini fra le discipline l’elemento generativo del sapere. Il libro, quindi, può essere solo uno dei nodi all’interno di un processo reticolare che è esso stesso il percorso della ricerca, che si comunica mentre si realizza, mentre si mette in relazione con altre specificità e ambiti inimmaginabili secondo il modello tradizionale di ricerca umanistica.

Il compito dell’umanistica digitale è proprio quello di ridisegnare  i percorsi in cui si sviluppano saperi, creando nuovi modelli che includano come parte essenziale del processo di ricerca anche nuove forme di comunicazione, di argomentazione, di “modelli di persuasione”.

Per fare queste cose non bastano studiosi, informatici, bibliotecari, conservatori, artisti del digitale nel senso di professionisti che lavorano in team ciascuno per la propria parte; è necessario che queste competenze attraversino  tutte le professionalità, almeno fino al punto di riuscire a parlare un linguaggio comune. Solo su questa base poi possono agire gli specialismi.

L’elemento costitutivo del processo della conoscenza in questo contesto sono naturalmente i dati. Che da soli sono o brutti o inutili, intorno ai quali ruota tutto un lavoro di critica, elaborazione che li rende meaningful or beautiful:

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Meaningful and beautiful, mi piace di più.

Non si possono separare infatti i concetti di utile e bello vedendo muoversi sullo schermo una mappa diacronica che si popola, man mano che gli anni scorrono in una colonna in basso a sinistra, di luci più o meno grandi in corrispondenza dei luoghi della storia della stampa in Europa, progetto che alle spalle ha un database di dati bibliografici.

Così come bella, bellissima (e utile, utilissima), è un’immagine che ricorda un quadro astratto: sfumature di tutti i colori che si attraversano ed estendono in aree più o meno vaste, che rappresentano una distribuzione di tutti colori presenti nelle opere  di un museo, così basta cliccare su una particolare tonalità per vedere in quali opere questa si trova. Questo grazie a un database in cui i musei buttano dentro le immagini, e poi uomini e macchine fanno il resto. Danno significato e bellezza.

Per chi si chiede quale sia il compito delle biblioteche in questi tempi in cui abbiamo (noi, biblioteche) perso, semmai l’avessimo avuta, l’esclusiva delle fonti della conoscenza, questa a mio avviso è una delle risposte: produrre dati e renderli disponibili. Forse non saremo noi a renderli utili e belli, ma questo lasciamolo fare alle persone e alle macchine che lo sanno fare (se ne parlava anche qui). Nostra è la responsabilità, oggi, di attivare processi che trasformino la conoscenza che le nostre biblioteche conservano in dati, cioè in unità costitutive del sapere in epoca digitale.

Per farne cosa? Credo non debba interessarci più di tanto. Significativa una piccola provocazione che Schnapp ha raccontato: ai bibliotecari della Library of Congress che difendevano la perfezione dei metodi di catalogazione bibliografica da loro utilizzati, egli chiede: “Ma io posso, con i vostri dati, vedere quanti libri azzurri avete?”

Dobbiamo quindi fidarci di quello che chiunque vuol farne, che sia un catalogo dei libri azzurri o un database delle occorrenze di un corpus di testi medievali o una nuova trascrizione filologica di un manoscritto o una mappa tematica di un determinato argomento, o altro.

Tanto, insiste Schnapp, nessuno potrà danneggiarli. I dati resteranno integri, qualunque sia l’uso che se ne faccia.

Sarà questa la nuova identità delle biblioteche, sono questi gli scenari futuri? Mi aspettavo che, alla domanda sul ruolo delle biblioteche in questi nuovi processi della conoscenza, Schnapp proponesse concezioni ultra-innovative di biblioteche come laboratori di produzione ed elaborazione di conoscenze digitali, e lui ha risposto invece parlando delle antiche biblioteche di Pergamo e Alessandria, che erano ecosistemi della conoscenza: luoghi di conservazione dei documenti, in cui operavano filologi e studiosi che interpretavano e trascrivevano le opere, in cui esisteva una sala che ospitava il confronto e il dialogo e dove si tenevano lezioni. Conservazione, elaborazione, circolazione del sapere avvenivano in un unico processo.

L’epoca digitale ripropone questo processo, che non deve però isolarsi nel solo contesto digitale anzi: oggi come allora sono fondamentali gli spazi fisici, luoghi dove far interagire le persone intorno alle risorse della conoscenza.

Fino ad ipotizzare proposte audaci per le biblioteche pubbliche locali: collezioni mobili e collocazioni temporanee, che forniscano alle persone tutti gli elementi di conoscenza per la discussione e l’elaborazione partecipata di determinati problemi molto sentiti dalla comunità. Una proposta alternativa al modello di biblioteca pubblica universalistica che varrebbe la pena di sperimentare.

Biblioteche e open data

bibliotecari non bibliofili!

Lunedì scorso sono stata al seminario che si è tenuto presso la Biblioteca Sormani di Milano Open Data, Machine Learning e Biblioteche. Ora sono stati pubblicati i video integrali degli interventi, compresa la tavola rotonda del pomeriggio. Questo era il programma della giornata.

Si è trattato di un seminario anche più interessante di quanto già non mi aspettassi. Fra tutte le cose che ho sentito – o meglio fra quelle che ho capito ma, come cercherò di spiegare, non è molto importante che alcune non si capissero – ce n’è stata una sola con cui non sono d’accordo: che gli open data delle biblioteche, e quanto ci si può costruire, siano un oggetto di interesse di nicchia.

Perché no? Perché, quando di certo non si sta parlando di sostenibilità economica dei servizi, di promozione della lettura, di open access o di qualunque altro modo in cui…

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Spalancare le porte. E poi?

Riprendo l’argomento di un altro mio post, anche sollecitata dalla lettura di questo intervento di Denise Picci. Mi interessa in particolare una questione che pone Denise:

Quando seguendo l’idea che le biblioteche devono rispecchiare la nostra società (davvero? abbiamo aspirazioni e modelli così bassi?) abbiamo aperto le porte a tutti (sacrosanto, sia chiaro) e abbiamo lasciato tutti lì, in biblioteca a fare non si sa bene cosa, riproponendo esattamente quello che succede fuori: aree di emarginazione, insofferenze, non risposte ai bisogni.

Mi sento chiamata in causa perché scrissi altrove, e non esito a dirlo ogni volta che posso, proprio questo:

una biblioteca che voglia dirsi veramente pubblica, una biblioteca pubblica che funziona, anzi addirittura la biblioteca pubblica ideale, è quella che riesce a contenere al suo interno la società che sta fuori dalle sue pareti. Tutta la società, tutte le persone. Gli accademici, i bambini, gli studenti, le casalinghe, i professionisti, le commesse e le funzionarie,  gli intellettuali, le maestre, i poveri, i solitari, i tristi e i felici. Tutti.

Non si tratta naturalmente di riproporre (o aspirare a) un modello sociale della nostra biblioteca identico a quello esterno, quanto di rispondere al principio fondante dell’esistenza delle biblioteche pubbliche, quello di offrire servizi per tutti senza distinzione.

Questo principio, così banale se vogliamo (quale bibliotecario pubblico non lo affermerebbe, in teoria?) è stato ed è spesso nella pratica disatteso dagli stessi bibliotecari, che hanno cominciato a distinguere fra utenza propria e impropria, e a chiedersi se servizi che sono stati progettati e per un certo periodo ritenuti assolutamente propri per la biblioteca (per esempio, la connessione wi-fi), non fossero improvvisamente diventati impropri sulla base di chi li utilizza. Quello che poi è successo, sta succedendo, è che le biblioteche hanno cominciato a considerare questo fenomeno un problema, e non un’opportunità (ma anche, scusate, un dovere per chi, pagato con denaro pubblico, ha scelto di lavorare per rispondere ai bisogni di informazione e conoscenza delle persone).

Non solo un problema dunque, ma un problema che riguarda categorie di persone: semplificazione, questa, che inficia qualunque ipotesi costruttiva; raramente scomposto e analizzato negli elementi che ne costituiscono la complessità. Tutti quelli che vanno sotto il nome di utenti impropri, sono davvero una categoria? Il senzatetto, l’immigrato, il disoccupato, il rifugiato, se per la biblioteca rappresentano un unico “problema”, chiedono davvero una risposta univoca?  L’approccio finora è stato questo: la ricerca di una, e una sola soluzione (impossibile) a un problema che non ci si è preoccupati di definire nelle sue articolazioni. Inevitabilmente, dunque, la risposta è di massa: si invocano i servizi sociali, è un problema del sindaco, mettiamo i tornelli: in sostanza, viene dichiarata l’estraneità dei bibliotecari alla questione.

Dunque, da chi è composto questo grande magma di utenti impropri? Non serve commissionare chissà che ricerca: basta alzarsi, fare il giro del bancone (poi un giorno dirò della necessità di bruciare i banconi delle biblioteche, ma questo è un altro discorso) ed andare a parlare con queste persone: sono lì tutti i giorni, le vediamo da mesi, non si sono mai rivolte a noi per chiedere informazioni o servizi, forse non sappiamo neanche come si chiamano e li indichiamo fra noi con il nome del loro apparire (quello col berretto, quello piccolo, il pakistano ecc.). Magari con il sorriso con cui Denise ha salutato la signora straniera, dire: “Buongiorno, sono il bibliotecario, mi chiamo Giuseppe, vedo che viene tutti i giorni, ma non ci conosciamo. Posso farle qualche domanda? lei può farne a me, se vuole”. Chiedere a ciascuno di loro perché viene in biblioteca, cosa cerca, cosa trova e cosa non trova, cosa vorrebbe, cosa possiamo fare per essere anche il suo bibliotecario e come può essere, la nostra, anche la sua biblioteca.

Si possono scoprire cose sorprendenti, per esempio una disponibilità al dialogo quasi sempre cordiale e aperta; per esempio che si aspettano dalla biblioteca esattamente quello che offre, per esempio che non sapevano che la biblioteca potesse rispondere a un loro bisogno. Si può scoprire che il ragazzo nero che da settimane se ne sta muto seduto nello stesso posto e ci pare finga di sfogliare qualche libro solo per giustificare la sua presenza in biblioteca, proviene dal Mali, dove, ci ha raccontato, nei pochi anni in cui si va a scuola si studia il francese e il mondo occidentale su libri di testo francesi, dove non si trovano – o a lui non è mai capitato di trovare – libri che parlano degli animali che popolano la sua terra, e allora per questo gli piace venire in biblioteca, perché trova libri con le foto del suo paese.

Può capitare che dopo un minimo di dialogo, un rifugiato (un clandestino?) si senta finalmente in confidenza per chiedere se, già che ci siamo, possiamo dare un’occhiata ai compiti del corso di lingua italiana, che ha appena fatto.

Può capitare di vedere reazioni di grande entusiasmo quando, a chi dichiara di essere lì perché non ha niente da fare e traffica con il suo tablet tutti i giorni perché c’è il wi-fi gratis, si propone di dare un’occhiata alle proposte della biblioteca digitale o di ascoltarsi un audiolibro.

Questo non è banale: una sorpresa interessante potrebbe essere che molti non chiedono (non hanno bisogno di) cose molto diverse di una riproposizione aggiornata di quello che la biblioteca ha sempre offerto (che magari risponde anche ad esigenze di utenti “tradizionali”).  E può anche capitare che sì, ci siano persone che hanno più bisogno dei servizi sociali che della biblioteca, ma che un bisogno non esclude l’altro.

Questa non è una soluzione, ma il primo passo da fare. Entrare in relazione con le persone che frequentano la biblioteca. Riconoscerle nella loro unicità per dare “cittadinanza bibliotecaria” ai loro bisogni.

Attenzione, non sto parlando (non in questo momento, almeno) della bellezza di aprirsi al mondo e del piacere di conoscere le persone e di sentirsi bibliotecari aperti e accoglienti. Perché la relazione fine a se stessa, pur bella e importante, non serve a molto se il nostro scopo è far crescere e cambiare i servizi della biblioteca partendo dai bisogni di chi li usa.

Perché poi, in back office, bisogna studiare, elaborare dati e informazioni che abbiamo raccolto, per capire prima di tutto quanto i servizi della biblioteca rispondano alle loro esigenze ed aspettative. Chiedersi fino a che punto coinvolgere queste persone direttamente nella progettazione di nuovi spazi e servizi. Trovare modi per mescolare gli utenti in base alle risposte che la biblioteca può dare ai loro bisogni e non in base alla loro nazionalità o provenienza sociale. Considerare la collaborazione e il coinvolgimento di altri servizi pubblici, sia per dirottare all’interlocutore giusto quelle richieste per le quali non siamo competenti, sia per avere, noi bibliotecari, alcuni strumenti utili di analisi, o di semplice conoscenza dei fenomeni che affrontiamo ogni giorno.

Dovremmo volere fortemente che la nostra biblioteca sia frequentata dalla società che sta fuori, con tutti i problemi e le complessità che questo comporta. Dovremmo volerlo perché questa riproduzione, in piccolo, del modello sociale esterno ci permette di incidere davvero, di potere realmente lavorare per il cambiamento.

Quello che, del modello sociale esterno, non possiamo permetterci di riprodurre dentro le biblioteche sono le soluzioni di massa, le semplificazioni di problemi sociali complessi, la radicalizzazione di opinioni sempre meno supportate dalla conoscenza reale dei fatti e dei fenomeni. E in questo il ruolo dei bibliotecari non è semplicemente spalancare le porte della biblioteca (anche se neanche questo pare scontato), ma lavorare attivamente, ascoltando, analizzando, proponendo, coinvolgendo, mettendosi direttamente in gioco (e in discussione) tutti i giorni.

 

 

 

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Fare cose con i dati

Il Burkina Faso è un territorio povero di acqua. Ci sono dei bacini più o meno grandi che si formano nella stagione delle piogge, che però nella restante parte dell’anno diventano secchi. L’acqua bisogna estrarla dai pozzi: si trova a qualche decina di metri sotto terra, dove, coperta da un alto strato di suolo argilloso, si raccoglie lungo falde rettilinee che scorrono sopra rocce di granito. Le radici degli alberi si sviluppano sottoterra soprattutto in verticale, perché cercano di raggiungere l’acqua, e quindi, per decidere dove trivellare per scavare un pozzo, si cercano alberi disposti naturalmente in fila.

Ma dove, effettivamente, c’è bisogno di un pozzo? Quanti sono i pozzi funzionanti, quelli accessibili, nelle zone rurali di quel paese? e quante decine, centinaia o migliaia di metri bisogna percorre per raggiungerne uno?  Nasce da queste domande il progetto H2OpenMap: un censimento dei pozzi presenti in un’area rurale del Burkina Faso, perché, come si cita in homepage del progetto “se sappiamo dove sono i pozzi, sappiamo anche dove mancano”.

Dunque questi volontari percorrono i territori e cercano i pozzi esistenti, li geolocalizzano su una mappa, li classificano per tipologia, per stato di funzionamento, per possibilità di accesso, distanza dai villaggi, e aggiungono varie altre informazioni utili e poi sulla base di questo decidono dove trivellare per costruirne di nuovi. E cambiare la vita di chi abita quei territori.

Condivideremo tutti i risultati con più associazioni possibili e cercheremo di insegnare questo metodo a quanti vorranno partecipare, mappando altre zone del Burkina Faso. Se riusciremo nell’intento di diffondere il progetto allora in breve tempo avremo una mappa dei pozzi del Burkina Faso e perché no, anche di altre zone dell’Africa.

Ho scoperto tutto questo partecipando a uno degli incontri organizzati nell’ambito del quarto raduno di Spaghetti Open Data, gruppo informale di “italiane e italiani che fanno cose con i dati“, tenuto insieme da una mailing list attivissima che seguo con meticolosa attenzione da più di due anni, affascinata dalla passione che pervade qualunque discussione. Anche quelle, numerose, di cui io non capisco niente perché dell’aspetto informatico delle cose io so pochissimo. Perché le seguo dunque? Perché sono una bibliotecaria, e con la stessa loro passione perseguo il sogno di un accesso aperto alla conoscenza, in tutte le forme possibili, a tutti i livelli: nella disponibilità di dati e informazioni, nella capacità di interpretarli, di elaborarli, di riusarli per costruire nuovi saperi, nel facilitare il percorso per chiunque voglia coinvolgersi, provare, mettere un pezzo delle proprie idee, conoscenze, competenze per costruire percorsi di conoscenza davvero libera. Quando proprio sono scoraggiata dal fatto che non riesco a seguire la mailing list perché troppo tecnica per le mie competenze (e non è il solo progetto che fatico e contemporaneamente mi ostino a seguire), mi ricordo di questo intervento di Aaron Swartz, che è una delle letture che più mi è stata d’ispirazione e che più mi ha dato motivazione nelle cose che faccio, e capisco perché lo sto facendo.

Le persone che fanno cose con i dati, che a volte parlano in un linguaggio a me incomprensibile, permettono la costruzione di pozzi d’acqua in Africa, censiscono i beni confiscati alle mafie e il loro riutilizzo; raccontano, con numeri e dati, quanti e quali sono i muri che dividono in Europa, raccolgono e organizzano i dati sugli edifici contaminati dall’amianto per fornire supporto a inchieste giornalistiche e azioni civiche. Cercano, liberano e organizzano i nudi dati e li trasformano, o permettono con il loro lavoro ad altri di trasformarli, in informazioni, strumenti, servizi.

Che la definizione di open data comprenda tutto questo sono in pochi a saperlo forse, e pochi, anche fra chi i dati li crea e li possiede, ne capiscono l’importanza. Io, man mano che imparo seguendo questo percorso, mi convinco sempre più che l’open data sia la cellula e l’unità di misura minima della libertà e della democrazia nei nostri tempi.

La funzione decorativa della lettura

Ho cominciato a lavorare come bibliotecaria vent’anni fa.
Era giusto il mese di aprile, e dal primo giorno fui assegnata a due specifiche mansioni: la sezione ragazzi al mattino (come era naturale, essendo io una donna, e quindi portatrice di innata vocazione per i bambini; i bibliotecari maschi e il direttore erano al piano di sotto ad occuparsi di faccende più virili, il pubblico adulto e l’acquisto di libri); il pomeriggio mi spostavo in un punto di prestito di una frazione vicina: una stanza quadrata al piano terra, sotto la scuola elementare, con otto scaffali e quattro tavoli.
In quella biblioteca, aperta dalle 14.00 alle 18.00 tutti i pomeriggi, venivano 15 utenti a giorni alterni, tutti insieme, e ci restavano per quindici minuti: i bambini della scuola elementare durante la ricreazione. Per il resto del tempo l’unica frequentatrice della biblioteca era l’anziana bidella della scuola, una donna grigia i cui occhi spenti assumevano tristemente vita solo nei momenti in cui piangeva, perché, mi spiegava, “aveva la depressione”, e non c’era niente da fare.

Devo dire che, oltre alla ricchezza di quel contatto umano, e nonostante il contesto in cui ero arrivata, ho imparato molto in quei primi due anni: al mattino lavoravo con una bibliotecaria straordinaria, che ha saputo trasformare la sua condizione di bibliotecaria dei bambini “in quanto donna” in un’altissima competenza, di cui ora possono beneficiare bambini, insegnanti, genitori e bibliotecari che hanno la fortuna di frequentare i suoi corsi; il pomeriggio fantasticavo, in quella biblioteca piccola e inadeguata, pensando per differenza a cosa avrei fatto se avessi potuto: e pensavo in grande, come i bambini che da grandi vogliono fare il supereroe. Io non ponevo limiti all’immaginazione bibliotecaria mentre scalpitavo per diventare grande in fretta e togliermi di dosso la condizione di giovane e inesperta.

Qualche anno dopo lavoravo in una nuova biblioteca, e lì ho potuto sperimentare quell’autonomia che andavo cercando. Era la fine degli anni ’90, primi 2000, e biblioteche come Salaborsa a Bologna, San Giovanni a Pesaro, San Giorgio a Pistoia, rappresentavano l’innovazione in Italia, il modello cui molti bibliotecari pubblici si ispiravano, che aveva dato slancio ed entusiasmo e molto da lavorare, in termini di creatività e sperimentazione, ai bibliotecari che andavano a visitarle e tornavano un po’ felici (di vedere cosa si può fare) e un po’ frustrati, perché, soprattutto per le bellissime architetture, erano modelli ancora lontani dalla realtà della maggior parte delle biblioteche in cui si lavorava. Entrare in biblioteca doveva essere un’esperienza bella per l’utente, piacevole, facile. L’utente doveva essere talmente soddisfatto degli spazi, dei servizi, dei libri, da volerci tornare.

Poi, non si sa bene come, “Leggere è bello” divenne l’imperativo di quegli anni, e abbiamo fatto sforzi in ogni direzione per dimostrarlo. La creazione di occasioni sociali come le maratone di lettura, per esempio, le campagne nazionali per il piacere di leggere, poi i gruppi di lettura per socializzare e condividere la gioia che la lettura doveva dare. E poi le “biblioteche fuori di sé”: portavamo i libri dal barbiere, in piscina e in salumeria, perché i libri dovevano essere dappertutto, perché nessuno poteva sfuggire al piacere della lettura e il nostro compito era quello di creare occasioni di incontro con i libri.
Eravamo bibliotecari militanti, e avevamo una visione ingenua e grandiosa del nostro lavoro.

Nel frattempo venivano istituiti per legge gli Uffici Relazioni con il Pubblico, e non solo non ci stupivamo che le amministrazioni non chiedessero a noi di lavorare con l’informazione e i cittadini, ma probabilmente, se ce lo avessero chiesto, ci saremmo offesi di vedere contaminata la nostra quotidiana celebrazione del libro con servizi che non avevano a che fare con la lettura.
Non ci siamo accorti così di lavorare giorno per giorno per una nicchia di utenti, e per un’esigenza che sempre di più nel corso degli anni si sarebbe rivelata un lusso, e non una necessità per il pubblico.

Quale è stato il momento in cui abbiamo deciso che dovevamo lavorare per disseminare il piacere della lettura, invece che per fornire, o quantomeno facilitare l’accesso alla conoscenza per i cittadini? Quando abbiamo stabilito che bastava che a una persona fossero spalancate le porte del piacere per la lettura, per farne un cittadino consapevole, informato, socialmente e culturalmente emancipato? Come abbiamo potuto pensare che bastasse leggere, per essere una persona migliore e che il nostro compito fosse creare una società di “persone migliori”?
Eppure è andata così, abbiamo investito in risorse, professionalità, documenti, per promuovere il piacere della lettura e lavoriamo, oggi, con la minima percentuale di utenti che ama leggere, che sono gli stessi di allora forse, e i pochi bambini che, cresciuti, hanno mantenuto questa abitudine.

La conseguenza più grave di tutto questo è, secondo me, nella visione che noi stessi abbiamo contribuito a creare sia nei cittadini non lettori, che negli amministratori. Cioè che le biblioteche sono affare per chi legge, escludendo di conseguenza chi non ha voglia, tempo, passione per la lettura, e quelli che, pur avendoli, preferiscono comprare libri e non frequentare comunque la biblioteca.

In tempi di tagli di risorse, dunque, succede che non appare strano e anzi, viene considerato un atto di amministrazione coraggiosa e innovativa, inaugurare biblioteche nuove, composte da libri donati da cittadini ed editori (basta che siano libri, e vanno bene) e gestite da volontari: il piacere della lettura non richiede infatti particolari professionalità, anzi forse si diffonde più facilmente grazie all’entusiasmo e alla gratuità con cui si spendono i volontari (lo dico senza alcuna ironia).
Così come viene salutato come atto di attenzione alle esigenze di servizi bibliotecari  disseminare il territorio di Little Free Libraries, come servizio sostitutivo.
Così come vengono considerate campagne di sostegno alle biblioteche quelle che invitano a “donare un libro alla biblioteca”: li regalano i cittadini, basta che siano libri, non serve destinare risorse pubbliche per questo scopo.

La scorsa estate passeggiavo su un affollato Lungotevere con un’amica, di sera. Era pieno di vita, di giovani, di profumi di cibo buono, di bancarelle e bellissimi locali per aperitivi o cenette. In quasi tutti questi locali all’aperto era presente uno scaffale di libri: intorno ai divanetti, sulle pareti laterali, in grandi cestoni. Naturalmente nessuno leggeva, e ci mancherebbe, con tutta quella bellezza e quella vita intorno.
E allora ho pensato che quella funzione decorativa dei libri, forse un po’ l’abbiamo alimentata anche noi bibliotecari degli anni duemila, spendendo troppe energie e risorse in servizi in qualche modo decorativi e trascurando invece una funzione di cui c’è sempre un più disperato bisogno: fornire risorse informative di qualità, lavorare per rimuovere ogni ostacolo fra i cittadini e le informazioni, mettere a disposizione strumenti di interpretazione della contemporaneità, per combattere la semplificazione e l’appiattimento di fronte alla complessità delle dinamiche sociali in cui viviamo.

Tutto questo oggi è considerato in termini di sfida e innovazione, ma era questa ed è sempre stata questa la missione delle biblioteche pubbliche. Solo che a un certo punto ci siamo ubriacati di piacere per la lettura e ce ne siamo dimenticati.

Wikipedia, un posto per bibliotecari

Tutto quello che i bibliotecari potrebbero fare per fornire un reale, ampio accesso alla conoscenza nei nostri tempi è ottimamente spiegato qui, e consiglio di leggere tutto il post di Virginia Gentilini prima di proseguire con la lettura di questo. Io posso solo aggiungere una riflessione.

Non è passato tantissimo tempo da quando la riproduzione di pagine di enciclopedie su richiesta dei nostri utenti occupava un discreto tempo lavorativo della nostra attività di bibliotecari. Da quando ci toccava comprare un volumone di aggiornamento che costava quanto tre mesi di servizio novità, o da quando la scelta di acquistare un’intera enciclopedia cartacea era per una biblioteca un serio investimento economico che incideva notevolmente nel budget annuale per l’acquisto dei libri – quindi doveva essere una scelta meditata, curata, analizzata nei dettagli (ricordo una lunga discussione con alcuni colleghi per l’acquisto di volumi le cui pagine erano di una dimensione che non permetteva la riproduzione nei formati standard previsti dalle fotocopiatrici).

Ora non compriamo più le enciclopedie, facciamo pochissime fotocopie di quelle che abbiamo in sede chiedendoci a ogni revisione se è giunto il momento di scartarle; continuiamo a salvarle, in molti casi, perché la voce sulla Prima Guerra Mondiale o su Giacomo Leopardi può avere senso anche senza aggiornamenti: Leopardi e la Prima Guerra Mondiale in fondo restano sempre quelli – quell’enciclopedia non ci dirà però di tutti i documenti, immagini, testimonianze che Europeana raccoglie sulla Prima Guerra Mondiale; né ci farà sfogliare un’edizione dei versi di Leopardi pubblicata mentre l’autore era ancora in vita.

Spetta a noi, al nostro ruolo di mediatori dell’informazione, di facilitatori della conoscenza, raccontare dell’esistenza di queste risorse a chi non le sa cercare, a chi non conosce la loro esistenza, a chi si ferma al primo risultato di Google non badando al fatto che sia o meno sponsorizzato.

Ma c’è un problema: i nostri utenti non vengono più da noi, vanno su Wikipedia.

Wikipedia è generalmente indicato come il sesto sito più consultato al mondo. Fronteggia quasi alla pari mostri come Google e Facebook. […] Se ci interessano gli utenti, ci interessano Wikipedia e il fatto che sia un’enciclopedia di qualità. La maggioranza dei nostri utenti non utilizzerà altra risorsa di reference per il resto della sua vita.

Scrive Virginia Gentilini. 

Se i nostri utenti non vengono da noi, ma vanno su Wikipedia, allora su Wikipedia dobbiamo andarci anche noi. Fa parte del nostro lavoro, della nostra missione. Non basta frequentare un corso di aggiornamento sulle risorse informative in rete e sapere che esiste: Wikipedia deve essere anche la “nostra” biblioteca, il posto in cui esercitiamo attivamente la nostra professione.

La cura con cui sceglievamo le enciclopedie cartacee, ora dovremmo usarla nel verificare le voci di Wikipedia, e nell’arricchirle non solo di contenuti, ma anche e soprattutto di fonti. Le fonti sono in biblioteca, intorno a noi. Sono i libri che abbiamo acquistato, le collezioni di periodici che conserviamo, le risorse di qualità che il nostro approccio consapevole e informato alla rete Internet ci permette di conoscere. Le troviamo a occhi chiusi, se vogliamo. È il nostro lavoro.

Pensiamo inoltre a quante fonti preziose, a volte uniche, sulla cultura del nostro territorio, conserviamo nelle nostre biblioteche che potremmo mettere a disposizione di un pubblico più ampio: dello studioso che vive dall’altra parte del mondo, per esempio, che verrebbe così a sapere dell’esistenza di documenti altrimenti impossibili da conoscere.

La prossima volta che cercando su Wikipedia ci scandalizzeremo della povertà o inaffidabilità di una voce, rimpiangendo i tempi non lontanissimi in cui il sapere era rinchiuso dentro testi autorevoli, alziamoci, andiamo in sala o nei depositi e cerchiamo un testo “autorevole”. Poi torniamo su Wikipedia, clicchiamo su “modifica” e aggiorniamo la voce.

E c’è un motivo in più per farlo subito, a partire da questa settimana: ecco perché e come fare: #1Lib1Ref.

 

Oggi non ho fatto niente

Oggi ero io, in biblioteca, quella che non faceva niente. Avevo finito di lavorare presto e avevo un altro impegno in città dopo due ore, e fuori era freddo. Così ho scelto la biblioteca, perché era un posto caldo dove poter stare senza che qualcuno venisse a chiedermi qualcosa. Sono stata seduta un bel po’ e non ho toccato neanche un libro: non avevo voglia di leggere. Ho risposto a qualche email dallo smartphone usando il wi-fi della biblioteca, e poi ho passato il tempo a guardare gli altri, perché se c’è una cosa che non mi stancherei mai di fare nella vita è starmene in qualche posto, da sola, a guardare la gente che passa.

No, non ho usato la biblioteca per i suoi servizi, a parte un po’ il wi-fi. Ero una che non faceva niente. Come quelli che giorni fa nominava il tal politico: “Sono passato in biblioteca giorni fa, certo ne avete di gente che non fa niente“. Come quelli che ci mandano in crisi, noi bibliotecari, nei giorni di pioggia: tanti i posti occupati da quelli che non fanno niente. Come quelli che spingono diligenti studenti universitari a scrivere lettere al giornale lamentando la violazione del tempio della cultura da parte di chi non fa niente.

Alcuni sono personaggi noti: ogni biblioteca ha i suoi, quelli che ricorrono negli aneddoti curiosi dei bibliotecari. La donna dal volto di indecifrabile tristezza che ogni tanto, furtivamente, si cerca un angolo nascosto e si mette a riordinare i libri fuori posto sugli scaffali. L’ anziano signore che tutte le mattine è il primo ad entrare, si siede dove trova posto, tira fuori fogli di carta bianca e matita e disegna le persone che vede, poi verso le undici esce e non si vede più per il resto della giornata. L’altro signore che in biblioteca ci passa tutto il giorno con un libro in mano, che si porta da casa, e che interrompe le lunghe giornate senza fare niente con qualche mezz’ora di lettura. Le signore straniere che fanno le pulizie negli uffici, abitano chissà dove in periferia e le corse dell’autobus sono rare, arrivano con molto anticipo, si cercano un posto e aspettano chiacchierando sottovoce. Chi viene nella pausa pranzo a mangiare in giardino qualcosa che ha preparato in casa e chiuso in un contenitore di plastica. I ragazzi che escono da scuola e aspettano che qualcuno li venga a prendere. La ragazza che viene con un bambino piccolo, cerca una poltrona in un angolo discreto e si mette ad allattarlo, e quando ha finito va via. I tanti immigrati che aspettano: un permesso di soggiorno, una casa, un lavoro, l’ora di cena, un treno, un compagno di viaggio, o semplicemente che qualcosa accada mentre i giorni trascorrono.

E insieme a loro altri, invisibili perché non si fanno notare: non chiedono, non disturbano. Si mescolano nel via vai quotidiano.

Tutti hanno in comune una scelta: passare del tempo in biblioteca, indipendentemente dall’uso dei servizi che questa offre.
Hanno scelto gli spazi, e insieme la compagnia indistinta degli sconosciuti che la frequentano; la possibilità di essere anonimi, e nello stesso tempo di affermare la propria unicità in uno spazio dove chiunque può trovare il suo posto.

Avevo letto qualche tempo fa questo post di Marco Goldin, a proposito della parte silenziosa della comunità rilevata dai social media. L’articolo è interessantissimo e dice cose sorprendenti sulle comunità invisibili che popolano le pagine Facebook. Noi contiamo i like e le condivisioni dei post, e non ci accorgiamo che esistono interazioni, nodi e reti intorno alla nostra attività social che non vediamo, e per questo pensiamo che non esistano. Vediamo per esempio che un post non ottiene dei like e di conseguenza possiamo anche decidere di non postare più altro di quella tipologia. E sbagliamo.

Io leggevo e pensavo: ma non è che questo accade anche dentro il mondo fisico delle biblioteche? Noi contiamo i prestiti e gli iscritti al prestito e facciamo i profili di comunità e organizziamo i servizi sulla base di questi dati. Bene, ma quelli che ci scelgono per altri motivi, o semplicemente per nessun motivo preciso, chi sono, dove li mettiamo? Abbiamo una responsabilità nei confronti della loro scelta? Credo di sì.

Abbiamo creato luoghi accoglienti, sicuri, rispettosi dell’unicità di chiunque (se siamo stati bravi). Abbiamo creato spazi in cui anche solo passare il tempo, senza usufruire dei servizi, può fare la differenza per le persone che li frequentano. Sono persone che non vanno altrove, che scelgono la biblioteca. Perché non esiste un altrove in cui si può vivere una dimensione così intimamente propria e così fortemente collettiva come la biblioteca.

Di sicuro, la biblioteca non l’abbiamo organizzata così per loro, tenendo presente quel target di riferimento. Perché quel target non esiste nei profili di comunità, nelle analisi dei bisogni. Eppure, con la loro presenza, queste persone sono preziose, perché contribuiscono a dare questa identità libera alla biblioteca pubblica, questo senso di gratuità – perché nulla è richiesto a chi entra.
Allora mi chiedo se non sia nostro compito anche avere cura di queste esigenze, ricordandocene ogni giorno e cercando un equilibrio fra la funzionalità degli spazi e la cura della loro neutralità, lasciando che siano le persone – che sono singoli e comunità insieme – a caratterizzarli, a renderli mutevoli, flessibili, funzionali anche in base alle proprie necessità e non solo secondo il criterio dei servizi offerti.
E questo, in fondo, vuol dire anche avere cura di spazi sociali sani, in cui è possibile coltivare forme spontanee di rispetto e di convivenza civile.

Una questione di identità

Oggi al supermercato ho incontrato Sara.

Era bellissima, con i suoi lunghi capelli neri e gli occhi scuri sempre vivaci, il sorriso dolce e sfrontato, uguale a quello della prima volta che l’ho vista. Incredibilmente, con lei c’era la sua amica Yasmin: quindici anni fa, forse poco più, loro bambine di seconda elementare arrivate da pochi mesi in Italia, io bibliotecaria della periferia urbana della mia città, erano inseparabili. Alcuni bambini piccoli ci giravano intorno nella nostra breve conversazione fra gli scaffali. Con un sorriso abbiamo detto entrambe “Ti ricordi di me?”. Certo che ci ricordavamo. Abbiamo rievocato insieme la vecchia sede della biblioteca; le ho detto ancora: “Quando penso a quegli anni e a quella biblioteca, non posso fare a meno di ricordare anche te”. Lei era stupita, non pensava forse di essere così speciale. Non lo ricordava.

Venne la prima volta in visita alla biblioteca con la sua classe. Io raccontai loro della biblioteca, del codice segreto che identifica magicamente il posto di ciascun libro sulla scaffale; risposi alle loro domande spiegando che no, quei libri non erano tutti miei, e che no, non li avevo letti tutti, e poi li tirammo fuori insieme dagli scaffali e sul grande tappeto, bimbi e libri in ordine egualmente sparso, leggemmo delle storie. Come sempre, poi alla fine tutti andarono via con la testa piena di quei racconti, e in mano il modulo da riportare firmato dai genitori.

Non tutti poi tornano. Lei invece fu la prima a tornare, quello stesso pomeriggio. Aveva in mano il modulo, voleva la sua tessera della biblioteca.

Timida, ma guardandomi dritta negli occhi me lo porse. Lo presi, guardai il modulo: un attimo di sorpresa. Sorrisi, la guardai e le chiesi: “Ti chiami davvero Sara?” E lei, sicura: “Sì”. “E anche tua madre si chiama Sara?” “Sì”. Il cognome di quella bambina maghrebina risultava essere uno dei più comuni della città, e anche la madre a quanto pareva portava quel nome e cognome. Nello spazio in cui si riporta il numero di documento di identità di un genitore, c’era una sequenza di numeri a caso che neanche riuscivano a stare sulla stessa riga. Il modulo era compilato con una grafia incerta: era inequivocabilmente scritto da una bambina che aveva appena imparato a scrivere.

Ho pensato e ripensato anche in seguito a quello che poteva essere successo. Forse i genitori preferivano non firmare documenti ufficiali non indispensabili appena arrivati in un paese nuovo e sconosciuto. Forse la madre non aveva un documento da allegare, richiesto per l’iscrizione dei minori. Forse le avevano negato il permesso di andare in biblioteca, o di avere una tessera personale, magari per il timore che i figli rovinassero i libri presi in prestito e di doverli in quel caso rifondere. Forse, semplicemente, non aveva detto niente a nessuno ed era stata una sua iniziativa.

Senza chiedere altro, cominciai a inserire quei dati palesemente falsi, e qualche minuto dopo la tessera era pronta. La bambina si precipitò verso i libri che aveva sfogliato la mattina, ne prese subito in prestito il numero massimo possibile, e poi restò in biblioteca fino all’ora di chiusura. Nei giorni, settimane, mesi e poi anche anni successivi, lei era sempre lì, sempre con la sua amica Yasmin. Decine e decine di libri sono usciti  dalla biblioteca e poi rientrati passando da casa sua (qualcuno sì, è tornato con le pagine strappate: erano stati i suoi fratellini, mi diceva sempre. “Loro non hanno cura dei libri”).

Mi colpì tanto la storia di quella bambina molto piccola che, arrivata da poco in Italia, già si percepiva come una persona che aveva qualche diritto in meno rispetto agli altri bambini, che in Italia ci erano nati. E che si era organizzata subito per colmare questa differenza: con intelligenza, prontezza di spirito, ma anche con la forza e tutta la spontaneità della sua convinzione di essere come gli altri. I bambini lo sanno, e praticano la loro appartenenza ad un mondo di pari in modo istintivo: perché mai dovrebbero lottare per affermarlo?

Anche oggi, salutando quella donna molto bella, curata, sicura, dallo sguardo fiero e il sorriso dolce, le ho detto: “Ciao, Sara”. Non ho mai saputo il vero nome di quella bambina che si fingeva italiana per poter frequentare la biblioteca. Ma che importa.

Dove non si parla di libri

I protagonisti di questa storia sono: una biblioteca pubblica, un social network, un cittadino della ex­-Jugoslavia, un centinaio, o forse più, di sconosciuti che hanno scritto una voce su Wikipedia.

La storia è molto breve. La biblioteca decide di mettere in mostra dei libri di narrativa di autori dell’area balcanica; espone anche delle mappe che rappresentano le diverse fasi di costituzione del territorio della ex­-Jugoslavia negli ultimi 25 anni. La foto delle mappe è pubblicata sulla pagina Facebook della biblioteca, insieme a un breve testo che promuove l’iniziativa.

Il post su Facebook viene commentato con toni piuttosto accesi da una persona che protesta perché, nell’ultima mappa, il territorio della Bosnia-Erzegovina non rappresenta il vero ordinamento di quello Stato. La questione è delicata, perché c’è stata una guerra in cui qualcuno ha combattuto e subito sofferenze prima di arrivare all’attuale ordinamento, e chi scrive fa notare come egli stesso e il suo popolo siano stati coinvolti. Si capisce che non si tratta di una mera disquisizione storico-politica, ma che ci sono ferite ancora brucianti che lo spingono ad intervenire.

La bibliotecaria controlla la pagina di Wikipedia sulla Bosnia-Erzegovina, verifica che la voce sia attendibile confrontandola con la voce analoga della Wikipedia in inglese, controlla la cronologia della voce italiana, per capire quante persone ci hanno lavorato: sono moltissime, oltre un centinaio. Controlla la pagina di discussione di quella voce: almeno una ventina di persone si sono confrontate sui contenuti, sulle fonti, sulla correttezza della terminologia e della toponomastica. C’è stata ricerca, discussione, consenso.  E tutto conferma che la segnalazione dell’utente era corretta.

Accertato questo, la bibliotecaria rettifica l’informazione su Facebook, segnalando l’errore nell’ultima mappa e la voce di Wikipedia per i dettagli; la persona che aveva protestato conferma con un “like” e la storia finisce qui.

Questa storia parla di biblioteche, di correttezza delle informazioni, di verifica delle fonti. Ma non parla di libri, di autori, di esperti. Non è uno studioso di geopolitica che ha segnalato l’errore alla biblioteca, è una persona che ha vissuto una guerra. Non è stato il saggio sulla storia recente della ex­-Jugoslavia a fornire le informazioni corrette, né il parere di un professore universitario. Sono state un centinaio di persone, che hanno verificato fonti, discusso, chiesto pareri, risposto a dubbi, fino a costruire una voce corretta e condivisa dentro Wikipedia.

Certo, le fonti primarie sono i libri e gli studi e i documenti, ma non bastano solo quelli. Sono le persone a produrre e tenere viva la conoscenza, e questa cresce e si diffonde solo attraverso relazioni virtuose fra i saperi di tutti: dello studioso, dell’immigrato, degli sconosciuti che hanno scritto Wikipedia. Nessuno degli interlocutori di questa storia conosce gli altri protagonisti, ma ciascuno ha partecipato per costruirla. E tutto è avvenuto con strumenti, modalità, dinamiche che non avrebbero mai potuto verificarsi in contesti diversi da quello digitale.

Il primo post di questo blog toccava il tema delle biblioteche digitali partecipative, nell’ambito di un dibattito in corso in quei giorni fra i bibliotecari: qualcuno, sorridendo, diceva che dovevamo interrogarci se queste esistessero o meno, e cosa fossero, o per lo meno come declinarle nella nostra realtà lavorativa.

Ecco, quello che è successo su Facebook giorni fa credo che sia un buon esempio di biblioteca digitale partecipativa. Non serve che ci sia un’insegna sulla porta o un banner su un sito o un progetto strutturato che la qualifichi come tale: una biblioteca è digitale e partecipativa quando succedono cose come questa, anche se l’istituzione in cui ciò avviene ha oltre 150 anni di storia.

La biblioteca è un organismo che cresce.

La biblioteca è un organismo che cresce e sa trasformarsi anche intorno a un particolare contesto che lo richiede: le informazioni sono ovunque, chiunque può rettificarle, contestarle, arricchirle, chiunque può portare un pezzo di sapere; questo diventa fertile solo se si genera una relazione, solo se si confronta con altri saperi. Si può rendere prontamente disponibile ogni genere di informazione e conoscenza attraverso strumenti come un post di Facebook, una critica di uno sconosciuto, la fiducia nel lavoro di una comunità che si è creata intorno ad una voce enciclopedica. Tutti elementi estranei alla pratica lavorativa di molti bibliotecari (e certamente di tutti, fino a pochi anni fa), ma che oggi permettono alle nostre biblioteche di crescere, continuando a fare quello che hanno sempre fatto.

Entra, non ti verrà chiesto nulla

Ha un’età indefinibile, fra i 40 e i 55 anni. Indossa un paio di giacche pesanti, una sull’altra, anche oggi che sono 24 gradi e si gira in camicia, e porta uno zaino voluminoso sulle spalle. Vive in biblioteca da qualche mese, entra al mattino e va via la sera, in chiusura. Si sposta dall’emeroteca al corridoio, al giardino nelle belle giornate. La domenica, quando la biblioteca è chiusa, non va molto lontano, nel parco vicino o sulla strada pedonale appena fuori.

Lo incontro alla macchinetta del caffè. Mi chiede, un po’ esitante, se ho qualche monetina. Vedo che gli mancano quasi tutti i denti davanti. Ho un euro in mano, glielo porgo. Lo prende lentamente, lo guarda e si trasforma. Si illumina di un grande sorriso, e come un bambino esulta, ma con un filo di voce: “Wow!!! Un euroooo!!! Grazie!!!” Gli sorrido e vedo che cerca di dirmi altro, ma non riesce, fa fatica. Sento odore di alcool, penso sia per quello. Mi fa segno con la mano di aspettare, mentre cerca di articolare i suoni e le parole. Io aspetto, lo guardo, lui si mette una mano al centro della gola, come per scortare fuori le parole e dice, con fatica, lentamente: “Non riesco a parlare bene, sono stato operato, guarda”. Sul collo ha una lunga cicatrice, da un orecchio all’altro. La conosco. Mi dice ancora: “Aspetta, guarda” e si tira su la manica del braccio destro. So quello che vedrò. Un’altra cicatrice, lungo la parte interna dell’avambraccio, che si biforca poco prima del polso. “Lo so che cos’è”, gli dico.

Tumore al cavo orale. Operano tagliando sotto la gola e risalendo verso le parti malate. Ricostruiscono poi le parti rimosse sostituendole con parti di tessuto vascolarizzato, che asportano dal braccio. Così quel pezzo di corpo può riprendere, come può, le sue funzioni.

Mi racconta con fatica e ostinazione, facendomi segno con la mano di aspettare, quando non riesce, di essere stato operato quasi un anno fa, dopo tre anni di quello che lui credeva un mal di denti che non passava mai, e quando non ce l’ha più fatta e qualcuno l’ha portato al pronto soccorso, l’hanno ricoverato subito. Gli dico che si esprime in modo molto chiaro, e che deve parlare il più possibile per migliorare l’articolazione delle parole, che è una questione di muscoli e allenamento. Gli chiedo se riesce a mangiare. So che per mesi e mesi, anni, dopo, si riesce a ingerire solo cibi liquidi o cremosi. Mi dice “Minestre e minestroni!”. Anche quello migliorerà, gli dico.

Ha negli occhi una luce brillante, mi sorride, mi fa cenno con la mano di aspettare, deglutisce, si concentra e mi racconta. Di una sua amica dottoressa, che ha scoperto che era una dottoressa solo dopo che si era ammalato. Alcuni dettagli dell’operazione. La radioterapia. E’ la seconda volta che sopravvive, dice. La prima era caduto e aveva battuto la testa, e per quindici giorni era rimasto in coma. “E ora anche questo, è la seconda volta che rivivo”. Lo dice sorridendo, anche un po’ spavaldo,  con forza. E subito dopo gli occhi gli si riempiono di lacrime. E continua a sorridere, sfrontato, sdentato. “Ce la faccio, sai. Ora sto mettendo insieme le carte perché mi riconoscano un po’ di invalidità, magari prendo qualche aiuto”. “Speriamo bene allora!” gli dico mentre ci salutiamo. E lui: “No, non bisogna sperare. Bisogna crederci!”

Il degrado in biblioteca. Due mesi fa i giornali locali non parlavano d’altro. Uno studente aveva scritto una lettera al giornale lamentando la profanazione del tempio della cultura ad opera di senzatetto e vagabondi che la frequentano. La lettera fu pubblicata in prima pagina. Da quel momento tutti avevano qualcosa da dire sul degrado in biblioteca. Addirittura chi non ci era mai entrato scriveva per lamentare il degrado che non aveva mai visto. Diceva di non sentirsi sicuro. Altri dicevano che non sta bene, entrare in biblioteca e vedere tanti di loro seduti sulle poltrone tutto il giorno. Che occupavano posti che non gli spettavano, togliendoli a chi ne aveva bisogno. Anche quando la metà delle poltrone erano libere, loro comunque stavano togliendo dei posti a chi ne ha bisogno per studiare. Perché guai a mescolarsi.

Io non so quante occasioni ha avuto la persona con cui ho parlato oggi di raccontare a qualcuno della sua malattia. Una malattia tremenda, dolorosa, che lascia mutilati. Un’operazione i cui tempi di ripresa sono lentissimi, a volte durano mesi, anni. Un male che ti lascia dentro la paura più tremenda anche quando sembri guarito. Quell’uomo aveva una voglia incredibile di raccontare la sua battaglia vinta, la sua voglia di vivere, la sua fiducia, la forza che non è mai venuta meno anche nei momenti peggiori, ne sono certa dalla luce brillante che emanava il suo sguardo, dal suo sorriso sicuro.

Non so in quale altro luogo, se non davanti alla macchinetta del caffè dentro una biblioteca, sia possibile l’incontro fra due mondi, fuori così distanti. Non so dove altro sia possibile intrecciare un dialogo casuale fra chi sta, per forza o per necessità, ai limiti esterni della società e chi vive nell’agio dentro il suo cuore più caldo, nella “comfort zone” di una casa, un lavoro, vestiti puliti e cure mediche sempre disponibili. Non in altri luoghi pubblici, tutti aperti a categorie ben precise: consumatori, clienti, utenti di uffici pubblici. Luoghi a cui si appartiene temporaneamente in base al ruolo o funzione che si svolge in quel momento. Non per strada, o nelle piazze, perché ci sono le strade e le piazze malfrequentate, per loro, e quelle belle ripulite, per noi. E se uno di loro viene nella nostra piazza, non si sogna certo di venire a raccontarci la sua storia, né noi di metterci ad ascoltarla.

Va sotto il nome di degrado, ma questa per me è la ricchezza della biblioteca pubblica. Che è un posto vivo, che funziona, quando riesce a contenere in sé tutti i pezzi della società che sta fuori dalle sue mura, con tutte le sue complessità, con tutte le sue contraddizioni.

E’ il luogo delle storie, la biblioteca. Le storie narrate in migliaia di libri e le storie delle persone che la frequentano, e con l’atteggiamento aperto e fiducioso con cui cominciamo a leggere una storia, potremmo cominciare ad ascoltarla. Ci accorgeremmo che non sono poi tanto diverse, le nostre storie, da quelle degli altri; che le cose che ci tengono attaccati alla vita, quelle importanti, sono uguali per tutti. Che loro sono noi, un po’ più liberi forse, e un po’ più sofferenti, e con vestiti più vecchi dei nostri.

Poi oggi ho letto questo. Racconta di una titolare di un fast food che, avendo notato che qualcuno, dopo la chiusura, rovistava nelle immondizie per cercare qualcosa da mangiare, ha messo un cartello sulla vetrata del locale, invitando quella persona a venire di giorno e a mangiare un buon pasto, gratis.  “No questions asked”, sono le ultime parole dell’avviso.

Ecco, questo vorrei che fosse scritto sulle porte di tutte le biblioteche: “Entra, chiunque tu sia. Non ti verrà chiesto nulla”.

Biblioteche che rispondono a una sola domanda

Devo ancora una volta arretrare. Quando vorrei invece avanzare spedita, mettendo insieme le mille idee e i mille progetti che ogni giorno sento nascere guardando, ascoltando le persone che entrano in biblioteca, oppure spostandomi altrove, come sabato scorso, all’assemblea di Wikimedia Italia, che poi i 200 km di autostrada per tornare a casa non sono bastati a contenere tutte le idee, tutti i dialoghi che ho immaginato avviare con questo e con quello e con quell’altro mentre i progetti nella testa prendevano forma.

Nel post precedente avevo parlato dell’urgenza, per le biblioteche pubbliche, di lavorare sull’ “emancipazione digitale” dei cittadini, molti dei quali necessitano di una vera e propria alfabetizzazione informatica. Ma oggi, in questo momento, mi capita una cosa che mi spinge di nuovo a fare un passo indietro, a riprendere il ragionamento sulla partecipazione in biblioteca da un punto ancora più distante.

Sto scrivendo da una biblioteca pubblica di un comune veneto di circa 5.000 abitanti. E’ la prima volta che vengo qui, e ho due ore da trascorrere fra un impegno e l’altro: come sempre, cerco la biblioteca. La trovo, oltrepassando un piccolo parco, poco più di un’aiuola, selvaggio e incolto, ma comunque invitante. Entro nella biblioteca, una signora gentile mi viene incontro con sguardo interrogativo. Penso che non mi ha mai vista prima, conoscerà tutti gli utenti, penserà che forse ho bisogno di aiuto. Mi sento in dovere di giustificare la mia presenza: “Sa, non sono del posto, devo aspettare un paio d’ore, posso stare qui?” La signora, sempre gentile, mi dice certo, come no, si metta pure dove vuole. “Mi scusi”, le chiedo, “c’è una rete wi-fi qui?” “Cosa?” “C’è la possibilità di usare internet?” “ah, sì, penso di sì, c’è, vada di là, vedo che si mettono di là quando vengono”. Di là c’è una grande sala buia, fredda, quattro tavoli con sedie e basta. Torno fuori, le dico che preferisco stare nell’altra zona della biblioteca, più luminosa.

Trovo la rete del comune libera e accessibile senza password, e lavoro con quella. E’ passata più di un’ora dall’apertura della biblioteca, non entra nessuno. Intorno scaffali metallici grigi, libri che hanno visto gli anni ’80 mescolati a pochi testi recenti, Il Corriere della Sera, Il Sole 24 ore, il quotidiano locale nel settore dei giornali. Nessuno scaffale è mai stato spostato dall’apertura della biblioteca, suppongo intorno agli anni ’80. Sono stati aggiunti due tavoli con due computer, avranno 10 anni.

La biblioteca è lì, aperta, ma non ci va nessuno. E’ aperta, ma senza un bibliotecario. E’ aperta, ma senza un progetto, senza qualcosa che dia l’idea di trovarsi in un posto vivo, in cui succedono delle cose. E’ un posto dove ci sono dei libri, dove si può andare a prendere dei libri.

Penso che mi capita spesso, nei miei brevi viaggi in giro per l’Italia, di curiosare per le biblioteche di paese, vedere come sono fatte, conoscere i bibliotecari, per scoprire spesso, come oggi, che non ci sono bibliotecari. Che ci sono stanze piene di libri, quelle sì, più o meno piene, di libri più o meno recenti. Una volta, pochi anni fa, in un comune del Salento, gli scaffali di legno massiccio arrivavano stipati in cima al soffitto, l’horror vacui era massimo, libri ovunque, e non uno, non uno stampato dopo il 1970. E l’impiegato che mi raccontava con tristezza del suo imminente pensionamento, e che non ci sarebbe stato più nessuno a tenere aperta la biblioteca.

A quali domande rispondono queste biblioteche? a quali esigenze di informazione e conoscenza delle persone possono rispondere? Alla più tradizionale delle domande di chi si rivolge in biblioteca: Vorrei un libro. Di carta. Per un mese. Se non c’è lo prenoto, grazie, oppure chiedo di averlo in prestito intersede. Punto.

Sono moltissime, nei comuni italiani. Biblioteche con servizi minimi che rispondono in qualche modo al bisogno di lettura, e solo a quello, dei pochi cittadini che leggono. Certo, meglio di niente.

Ma da qui, da questo punto di vista, oggi, è difficile immaginare scenari partecipativi, difficile pensare a quali e quanti possono essere i bisogni della comunità cui la biblioteca potrebbe rispondere. Difficile pensare a cittadini attivi che attraverso la biblioteca sviluppano “empowerment”, relazioni, competenze, trovano spazi di condivisione.

Non è difficile invece pensare a cosa sarà questa e molte, moltissime altre biblioteche pubbliche italiane fra dieci anni, con i libri sugli scaffali sempre più vecchi, con sempre meno lettori e con personale sì, gentile e accogliente, ma che per il wi-fi “provi a guardare di là, vedo che si mettono di là quando vengono”.

Uscire dalla comunità

(Durante il Convegno delle Stelline 2015 si è svolto un interessante dibattito sul tema biblioteche digitali partecipative. Successivamente sono intervenuti su propri blog Andrea Zanni,  Enrico Francese, Valeria Baudo.  In questo testo aggiungo alcune riflessioni che non ho avuto il tempo di sviluppare in quella sede)

Tutte le comunità sono chiuse per definizione, perché vincolate dall’interesse che ne tiene insieme i membri, e anche quella dei bibliotecari lo è. Ma è anche una comunità anomala, perché il suo interesse non è circoscrivibile al suo interno, anzi è fuori. Nel dibattito odierno l’interesse della comunità dei bibliotecari riguarda le altre comunità, potenzialmente tutte.

Parliamo fra noi di chi sta fuori. E ogni tanto ci viene il dubbio di non sapere di chi stiamo parlando. Perché fuori ci sono tutti, sotto forma di singoli e di comunità, e noi, se restiamo su un piano strettamente fisico, conosciamo solo una minima parte di questi, nella migliore delle ipotesi quel 12% che le biblioteche le frequenta.

Non è una novità l’interesse dei bibliotecari verso la comunità, c’è sempre stato: abbiamo passato anni a censire il nostro bacino d’utenza, a tracciarne il profilo, aggiornarlo a tutti i cambiamenti, costruire le nostre raccolte e i nostri servizi sulla base dei loro interessi. Ma adesso le cose si complicano perché la comunità delle biblioteche non è più quella territoriale, né quella istituzionale. La comunità è ovunque, potenzialmente anche all’altro capo del pianeta, e soprattutto, la comunità può andare ovunque. Anche lontano dalle nostre biblioteche. Va dove trova risposte, va dove può soddisfare i propri bisogni. Si scioglie e si ricrea in altre forme sempre mobili, sempre meno classificabili.

Abbiamo capito che vogliamo la loro partecipazione, forse più per conoscerle meglio che per coinvolgerle nella progettazione dei servizi: abbiamo ancora troppa ansia da controllo per passare dal lavorare per loro a lavorare con loro.

Io più ci penso e più mi convinco che dobbiamo essere noi bibliotecari per primi a partecipare. Dobbiamo trovarci come abbiamo fatto alle Stelline, confrontarci, parlarne, e facciamo bene, ma poi anche e soprattutto uscire dalla nostra ed entrare nelle altre comunità. Se resteremo “solo” bibliotecari saremo sempre altro da loro; se staremo sempre attenti che i confini fra la nostra e le altre comunità siano segnati, convinti che spetti a noi decidere quando e dove aprire punti di attraversamento, potremo solo nella migliore delle ipotesi compiacerci dell’avanzamento di uno sterile dibattito interno.

Potremmo scoprire, per esempio, che noi parliamo di biblioteche digitali partecipate (e queste tre parole tutte insieme evocano per me scenari meravigliosi), ma fuori c’è solo quel 12% di pubblico (quando va bene) che conosce le biblioteche, una percentuale decisamente più bassa che conosce le biblioteche digitali, e nessuno che immagina cosa sia una biblioteca digitale partecipata.

Durante il dibattito su questi temi alle Stelline, qualcuno ha proposto un passo indietro: quanto bisogna lavorare perché la comunità dei bibliotecari ritenga attuale questo tema e si costruisca le competenze minime per lavorarci? Perché basta parlare con i nostri colleghi per accorgerci di quanto il dibattito sul digitale (e ancora meno quello sulla partecipazione) sia lontano, addirittura alieno dagli orizzonti lavorativi di moltissimi bibliotecari.

Io propongo di arretrare ancora un po’: c’era alle Stelline chi diceva che forse non se ne sente poi tanto il bisogno, delle biblioteche digitali partecipate, dal momento che oltre il 38% degli italiani non usa Internet (e solo il 64% delle famiglie ha un accesso internet da casa). E aveva ragione. I 22 milioni di italiani che nel 2014 non hanno mai navigato in Internet sono persone che non hanno un indirizzo e-mail, che non possono usufruire di servizi online; in biblioteca parlo con persone che pensano che Internet sia Facebook, che non distinguono un URL da un indirizzo e-mail, che sono convinti che l’account per accedere al Wi-fi sia sufficiente per controllare i movimenti della propria carta di credito. Tutto questo è preoccupante, deve essere preoccupante per noi bibliotecari, tanto quanto l’analfabetismo. Una persona che non accede alla rete oggi è una persona che non può esercitare fino in fondo la propria libertà. Parlando di spazio digitale, Andrea Zanni scrive:

Come accade nelle reti, il valore massimo dell’utenza diventa la moltiplicazione di tutti i suoi gradi di libertà. L’utenza potrà compiere azioni in questo “spazio delle possibilità”: più può compiere azioni, più queste azioni possono interagire fra di loro.

E’ un pensiero meraviglioso, la libertà che si moltiplica con l’interazione fra gli utenti. Ma, tutti i giorni, vediamo tante persone che sono al grado zero di questa libertà.

Sono molti: sono tutti coloro che sono andati a scuola quando Internet non c’era, e che poi non hanno fatto lavori che ne abbiano richiesto la conoscenza, e che anche volendo non saprebbero da che parte cominciare. Ci sono ventenni che di Internet conoscono solo le app preconfezionate, nelle cui risposte standard non c’è spazio per bisogni complessi che richiedono un pensiero attivo e creativo. C’è chi crede di non averne bisogno solo perché non ne ha mai conosciuto le opportunità.

E allora  questo è il passo indietro che dobbiamo fare quando ci interroghiamo sulla partecipazione della comunità attraverso gli strumenti digitali: assicurarci che tutti abbiano accesso a questi strumenti, che tutti abbiano le competenze per utilizzarli. Soprattutto le biblioteche pubbliche, con la stessa (e maggiore) forza con cui per tanto tempo hanno lavorato sulla promozione della lettura, ora devono lavorare sulla promozione delle competenze digitali.

Se non lo fanno le biblioteche, se non lo fanno i bibliotecari, nessun altro lo farà.

E l’incipit del Manifesto UNESCO per le biblioteche pubbliche ci dice in modo cristallino, senza ombra di dubbio, che è nostro compito farlo.

La libertà, il benessere e lo sviluppo della società e degli individui sono valori umani fondamentali. Essi potranno essere raggiunti solo attraverso la capacità di cittadini ben informati di esercitare i loro diritti democratici e di giocare un ruolo attivo nella società. La partecipazione costruttiva e lo sviluppo della democrazia dipendono da un’istruzione soddisfacente, così come da un accesso libero e senza limitazioni alla conoscenza al pensiero, alla cultura e all’informazione.  La biblioteca pubblica, via di accesso locale alla conoscenza, costituisce una condizione essenziale per l’apprendimento permanente, l’indipendenza nelle decisioni, lo sviluppo culturale dell’individuo e dei gruppi sociali.